Una brigata di banshee infesta le strade del rione Cirenaica. Sono i fantasmi delle donne che si sono battute per la libertà, contro il fascismo e il colonialismo. Chiedono a gran voce di essere riconosciute e ricordate al fianco dei partigiani caduti per la Liberazione. L’8 marzo, percorrendo le vie della contrada ribelle potrete imbattervi nelle tracce delle loro scorribande. Sono solo alcune delle tante donne che compongono questa fantastica formazione meticcia di combattenti e arrivano in supporto alle compagne della «Piazzetta delle Partigiane» (un piccolo giardino in via Musolesi), che l’inopportuno e goffo cartello ufficiale continua a chiamare in un altro modo.

Violet Albina Gibson è nata a Dublino il 31 agosto 1876 in una famiglia dell’aristocrazia protestante, anglo-irlandese, è figlia di Edward Gibson, Lord Cancelliere d’Irlanda e primo barone Ashbourne e della cristiana scientista Frances Maria Adelaide Colles. Seguace della teosofia in giovane età, si converte al cattolicesimo, ripudiando lo stile di vita, la religione e gli ideali britannici. Diventa pacifista e come tale viene schedata da Scotland Yard. Nel 1916 aderisce all’antroposofia steineriana, viaggia in Europa e, nel 1925, si stabilisce nel convento in via delle Isolette, a Roma. Il 7 aprile 1926 attenta alla vita di Mussolini in piazza del Campidoglio esplodendo due colpi di pistola. Sottratta a un tentativo di linciaggio, viene condotta in questura e interrogata dalla polizia. L’accusa infondata è quella di far parte di un complotto internazionale organizzato da Giovanni Antonio Colonna di Cesarò. Assolta dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato per infermità mentale è estradata a Londra nel 1927. Appena arrivata subisce il ricovero immediato all’Ospedale per malattie mentali St. Andrew di Northampton, dove muore nel maggio 1956 a settantanove anni, dopo aver scritto molte lettere di appello per il proprio rilascio a una società troppo codarda per riconoscerne il coraggio.

Estelle ‘Sylvia’ Pankhurst è una fervente oppositrice del colonialismo italiano in Etiopia. Pittrice, poetessa e giornalista inglese, nasce a Manchester il 5 maggio del 1882. Secondogenita di Emmeline Pankhurst, fondatrice della Women’s Social and Political Union – l’organizzazione per il suffragio femminile -, Sylvia accantona gli studi artistici per dedicarsi a tempo pieno all’attivismo politico e alla propaganda suffragista, che le procura una lunga serie di arresti. Autrice di libri e pamphlet, scrive diversi articoli e fonda quattro testate giornalistiche. Nel 1917 conosce Silvio Corio, il giornalista anarchico italiano, con il quale ha una relazione che perdura fino alla morte di lui e dalla quale nasce, nel 1927, il figlio, Richard. Socialista, pacifista, anti-fascista, anti-colonialista, pan-africanista, nel 1932, dopo l’omicidio Matteotti, fonda la Womens’ International Matteotti Committee, un’organizzazione volta a sostenere le richieste della moglie e dei figli del politico italiano. Per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale è attiva nel supporto agli oppositori e alle vittime del fascismo e in favore degli ebrei che sfuggono alle persecuzioni razziali. Nel 1935, in seguito all’occupazione italiana dell’Etiopia, si prodiga per sensibilizzare gli inglesi alla causa della liberazione del paese e il 5 maggio 1936, giorno dell’entrata di Badoglio ad Addis Abeba, da vita al «New Times and Ethiopia News», settimanale di critica ai regimi nazi-fascisti. Il suo attivismo ebbe anche l’obiettivo di riaffermare i valori africani nella controcultura antimperialista del tempo. Sostenitrice dell’imperatore Haile Selassie, alla morte di Corio si trasferisce con il figlio in Etiopia, dove continua il suo lavoro fino alla sua scomparsa nel 1960.

Kebedech Seyoum nasce nel 1910 in una famiglia della casa reale del Tigrè. È figlia del Ras Seyoum Mengesha, pronipote dell’imperatore Yohannes IV, e moglie di Aberrà Kassa, secondogenito del Ras Kassa Haile Darge. Aderisce alla lotta anticoloniale e , nel luglio del 1936 , partecipa al fallito tentativo di liberare Addis Abeba al fianco del marito e suoi dei fratelli Wondwosen e Asfawossen Kassa e dei famosi arbegnuoc dello Scioà. Poco prima della resa viene mandata in un posto sicuro perché incinta di quattro mesi. Quando apprende la notizia dell’impiccagione del marito, ucciso dagli italiani in piazza a Fiche, prende il comando delle forze patriote e scende in battaglia in divisa militare, con cartucciere, fucile e un foulard nero a coprirle i capelli. Di lei si dice che sia una combattente senza eguali e che al commando sia migliore di un uomo. Ogni sua imboscata si conclude in una vittoria e sempre più contadini del Selale si uniscono alla sua armata. Tiene in scacco le troupe italiane e i tutti i tentativi di catturarla si rivelano fallimentari. Le sue truppe, che si nascondono in luoghi di difficile accesso e agiscono sempre con il favore delle tenebre, sono composte di uomini, donne e bambini che sanno usare il fucile per difendersi e proteggere la comunità. Quando deve partorire il suo terzogenito, Tariku, «Storia» in amarico, Kebedech si allontana dal gruppo per un paio di giorni, per poi riprendere il suo posto nella lotta al colonialismo. Combatte fino al 1939 e, quando comprende che non c’è alcuna possibilità di vittoria, con il permesso dell’imperatore in esilio Hailè Selassiè ripiega con le sue truppe in Sudan. Poi si sposta a Gerusalemme e là rimane fino alla liberazione dell’Etiopia nel 1941, quando finalmente rientra nel suo paese dove si dedica agli orfani di guerra fino alla morte nel 1971. Kebedech rappresenta un modello di coraggio che non vogliamo dimenticare.
Lekelash Bayan, nome di battaglia Belew -በለው- “colpiscilo” in amarico, è tra le protagoniste della resistenza al colonialismo italiano in Etiopia. Il suo soprannome è dovuto ai suoi meriti sul campo di battaglia, infatti è molto rispettata per la sua forte leadership, l’abilità nel cavarsela da sola, l’astuzia e le sue capacità di combattimento. Durante la caduta di Addis Abeba, nel maggio del 1936, indossa abiti maschili e fugge nelle colline che circondano la città insieme al marito e alla figlia di quattro mesi. Due settimane più tardi da vita a una cellula composta da quarantadue guerriglieri che nel mese di luglio partecipa al tentativo di riconquista della capitale. Il 10 agosto perde il marito in uno scontro a fuoco con le truppe italiane. Belew sopravvive alla guerra, all’arresto e arriva a raccontare la propria storia di grande coraggio.


Vinka Kitarović, nomi di battaglia «Lina» nel bolognese e «Vera» nel modenese, è una partigiana attiva nella Resistenza italiana. Studentessa del ginnasio di Sebenico, in Croazia, nel 1941 vede entrare le truppe fasciste in città e nel 1942 si iscrive all’Unione della gioventù comunista jugoslava. Nell’ottobre dello stesso anno, arrestata dalle forze di occupazione italiane, é destinata a un istituto per la rieducazione di “minorenni, minorate e prostitute” in via della Viola a Bologna. Riesce a fuggire durante il bombardamento del 5 ottobre 1943 e con l’aiuto di una guardiana antifascista entra in contatto con la Resistenza italiana. A Vinka viene data la possibilità di rientrare in patria ma sceglie di unirsi alle formazioni partigiane attive nel bolognese. Prima ospite dei fratelli Masi, abita poi in quella che oggi è via Bentivogli nel quartiere Cirenaica. Impiegata nella ricognizione di obiettivi militari strategici da sabotare e nel pedinamento di gerarchi fascisti, a fine gennaio del 1944 entra a far parte della costituenda 7ª Brigata GAP “Gianni Garibaldi” col nome di battaglia Lina. Si occupa di trasportare armi, munizioni, ordini e materiale di propaganda. A giugno, avvertita di essere ricercata dai fascisti, si trasferisce a Modena dove assume il nome di Vera, staffetta del comando della 65ª Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” della 2ª Divisione Modena Pianura. A fine anno lavora nell’ufficio di collegamento del CUMER. Il 22 aprile 1945, Vinka Kitarović, appena diciannovenne, si trova a Modena, città già interamente liberata. Viene riconosciuta partigiana combattente dall’8 febbraio 1944, con il grado di capitano.

Tolmina Guazzaloca, nome di battaglia «Giuliana». Nasce il 5 settembre 1916 ad Anzola Emilia in una famiglia antifascista e nel 1930 si iscrive al PCI. Giovanissima svolge attività propagandistica sul luogo di lavoro e viene licenziata dalla «Polveriera» di Anzola Emilia per attività sovversiva. Dal 1939 al 1943 è operaia alla Ducati. Dopo l’8 settembre, entra nel movimento partigiano, diventa staffetta del comando di Piazza di Bologna e nell’agosto 1944 fa parte nel Comando Unico Militare Emilia-Romagna. La sua casa diventa una delle sedi del CUMER. È addetta al trasporto di armi e munizioni a Bologna e in provincia assumendo un ruolo fondamentale per la buona riuscita delle azioni e rischiando costantemente la vita. Viene riconosciuta partigiana con il grado di capitano dal 9 settembre 1943 alla Liberazione. Nel 2003 si batte per far ricordare la sua amica Adalgisa Gallarani, la partigiana “Tosca”, uccisa nel corso di una missione nel 1944, alla quale oggi è dedicato un cippo in via Brodolini nel quartiere Barca di Bologna.
Adalgisa Gallarani, nome di battaglia «Tosca», nasce a Bologna nel 1905. Aderisce al PCI e nel 1928 emigra con la famiglia in Francia. Fino al 1941, anno in cui rimpatria con l’incarico di trovare una base per la lotta clandestina, si occupa del trasporto di materiale propagandistico antifascista in Italia. Dopo l’8 settembre 1943 entra a far parte del Comando Unico Militare Emilia-Romagna e diventa amica della capitana «Giuliana», con la quale condivide la scelta della clandestinità e la dolorosa necessità di allontanare i figli per tutelarli affidandoli ai parenti. Come staffetta partigiana svolge il ruolo di addetta ai collegamenti tra Bologna e Milano. Gravemente ferita a Piacenza durante un bombardamento, muore il 16 settembre 1944. È sepolta nel Monumento Ossario ai Caduti Partigiani nel Cimitero Monumentale della Certosa; è ricordata nel Sacrario di Piazza Nettuno e nel Monumento alle Cadute partigiane a Villa Spada a Bologna.

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