
Ma quanti sono i medagliati d’oro delle “imprese coloniali” italiane che hanno l’onore di una via battezzata col loro nome? si domanda Wu Ming 2 in un articolo pubblicato su Giap, il blog del collettivo di scrittori, il 19 febbraio 2021 a proposito dei nomi e cognomi che campeggiano nelle molte strade della nostra penisola e che si portano addosso lo spettro di un passato fascista e/o coloniale.
Anche a Lodi ci siamo chiesti la stessa cosa: quanti di questi nomi adornano vie, piazze e i luoghi della nostra città? Così è natata l’idea di un primo trekking urbano nella nostra città all’interno degli eventi preparativi alla festa della Liberazione del 2023 (Aprile di Liberazione ) organizzati in concerto con il Coordinamento 25 Aprile di Lodi (rappresentato da Progetto Pretesto, Rumorosse, Fiab, Antifa Lodi, Adelente, Anpi di Lodi e Libreria Sommaruga) sulle orme di un passato coloniale e fascista che pare invisibile all’occhio, ma che decora la città, un itinerario a tappe per costruire la memoria a partire da un nuovo sguardo, decolonizzato e consapevole grazie al supporto di Resistenze in Cirenaica che da anni si occupa di approfondire e mettere insieme varie realtà sparse per il paese che lavorano su questi temi.
Il percorso del trekking lodigiano di domenica 16 aprile 2023 si articola in cinque tappe:
1. STELE ALLE MEDAGLIE D’ORO (Piazza Medaglie d’Oro)
2. COLLEGIO VESCOVILE
3. PIAZZA BROLETTO
3 .CAMPANILE DI CHIESA DI SAN ROCCO
4. VIA ITALO GARIBOLDI
5. PIAZZA 15° CAVALLEGGERI DI LODI

PRIMA TAPPA: STELE ALLE MEDAGLIE D’ORO (Piazza Medaglie d’Oro)

GEN. GRIFFINI SAVERIO 8-4-1848 PONTE DI GOITO MAGG. GEN GRIFFINI PAOLO 20-10-1860 MACERONE CAP.LE ARBASI ANGELO 4-8-1915 MONTE ROTHECH CAPO.SILURISTA MILANI ANTONIO 15-5-1918 POLA CENTURIONE BARANY HINDAR CAMILLO 12-2-1936 TAGA TAGA S.TEN DALL’ORO GAETANO 29-8-1937 MECATEA BERGHEMEDER CAP. ROSSI ERCOLE 21-4-1942 YOT
CAP.LE TORINI ARMANDO 11-12-1942 ANSA DI WERCH MAMON T.V. FORNI ANTONIO 12-7-1940 MAR ROSSO
S.TEN OTTOLINI GIORDANO 30-7-1916 MONTE SPILL
Al centro dei giardini pubblici Federico Barbarossa, a Lodi, si staglia nella sua verticalità verde rame il “Belfagor”, la famosa statua realizzata da Gianni Vigorelli nel 1967 dedicata alla Resistenza partigiana in città.
Una città che nel traffico d’ogni ora sembra rimanere fredda a ciò che ancora oggi il monumento prova a gridare dalle proprie incisioni “MAI PIÚ VIOLENZA E SOPRAFFAZIONI” mentre alle spalle annuncia ai passeggianti “LODI AGLI IDEALI E AI MARTIRI DELLA RESISTENZA”
Sarà la retorica o i tempi moderni ma ciò che ci accoglie veramente dietro il monumento è una lastra di marmo un po’ in ombra nella propria austerità e nelle proprie piccole dimensioni (se paragonate a quelle Belfagor) che porta sopra incisi su i nomi (dieci) di alcuni caduti in guerra a cui oggi ormai non si fa più tanto caso ma a loro tempo Medaglia doro al valore militare.
Fra i nomi impressi nella stele di Piazza Medaglie d’Oro a Lodi un nome più degli altri ha catturato da subito la nostra attenzione: sarà stato il suo carattere “esotico” ? BARANY HINDAR CAMILLO. L’epiteto? CENTURIONE. Oppure la data e il luogo di morte, a incuriosirci? 12-2-1936 TAGA TAGA.
Taga Taga, è un piccolo villaggio che oggi non compare neanche su Google Maps ma non dista molto dall’altopiano montuoso a sud di Maccallé nel quale si consumò il massacro (un vero e proprio genocidio ad opera delle truppe italiane guidate da Pietro Badoglio) della Battaglia dell’Amba Aradam fra il 10 e il 19 febbraio 1936, giorni in cui i soldati italiani arrivarono ad utilizzare gas (iprite) e agenti chimici in violazione di ogni convenzioni di guerra nello scontro con l’esercito abissino.
“Per giorni, dopo la sconfitta, l’aeronautica arriva a sganciare 60 tonnellate di iprite sulle colonne di soldati etiopi in ritirata, composte oltre che dai soldati del Negus , anche dalla popolazione civile in fuga. Si stimano, alla fine degli scontri, 20 mila morti da parte etiope tra militari e civili”
(Francesco Filippi – pag 148 “Noi però gli abbiamo fatto le strade” )
Storia controversa quella di Camillo Hindar Barany, ebreo italiano di origine ungherese nato a Paullo il 26 Aprile 1889 e cresciuto nel Lodigiano: appena ventenne, si arruola nelle file dei rivoluzionari messicani per combattere la dittatura di Porfiro Diaz, tornato in Europa dopo aver raccolto una prima Medaglia al valore oltreoceano partecipa ai combattimenti della Prima guerra mondiale nella Legione Straniera (l’Italia non era ancora uno stato belligerante) entrando nella Legione Garibaldina del Colonnello Peppino Garibaldi (nipote dell’eroe dei Due Mondi) combattendo nelle battaglie delle Ardenne e del Verdun. Con l’entrata dell’Italia in guerra si arruola come volontario negli alpini arrivando a esser nominato solo Sottotenente a causa della sua indisciplina, ma nel 1919 non perde tempo e parte per l’impresa fiumana a fianco di Gabriele D’Annunzio, ma visto l’esito è congedado dal governo.
Con l’avvento di Benito Mussolini, nel 1925 si unisce alla “riconquista” della Libia ed è assegnato alla Legione permanente libica col grado di centurione (termine che negli anni del regime fascista indicava il comandante di una centuria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) ma anche qui non dura molto e tornato in Italia mette su famiglia e si adopera per la “Patria” nella Società Bonifiche Sarde fondando insieme ad altri la città di Mussolinia (oggi Arborea) e con l’Opera Nazionale Combattenti e Reduci bonifica l’Agro Pontino fondando Littoria (oggi Latina).
Nel 1935 parte volontario per l’Africa Orientale e Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega 2010, inserendolo fra i protagonisti del suo romanzo Canale Mussolini riesce a delineare bene lo spirito di questa sua ultima “impresa”:
− Comunque appena è scoppiata la guerra d’Abissinia e ha sentito la voce della patria, il Barany non ci ha visto più: «La Patria chiama». Ha buttato all’aria tutti gli strumenti, gli squadri, le livelle, le provette dell’Opera combattenti ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia «Littoria» sua. Venne a prenderci casa per casa, podere per podere uno per uno: «All’erta camerati, a conquistar l’Impero! Chi viene di voi?». «Comandi, qualcuno vegnerà» rispondemmo tutti quanti. Non è difatti che si dovesse insistere troppo per trovare volontari a Littoria. Anzi, parecchi li rimandarono pure indietro: «Siamo troppi». Quelli – le ripeto – ci avevano dato la terra e mo’ che la patria chiamava, tu manco volevi rispondere: «Volontario!»? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo battaglione «M» della Rsi, fino alla X Mas. Ora lasci stare – le ripeto – che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, eravamo noi che andavamo ad invadergliela –
Il 12 febbraio 1936 perderà la vita nel combattimento di Taga Taga esclamando « Non perdete tempo per me. Andate avanti. Viva il Duce ».
Motivazione Medaglia d’oro al valor militare
Centurione comandante 18a comp. « Littoria » della Gennaio »
Data del conferimento: 1936
Alla memoria
Già volontario nelle Argonne e a Fiume, si arruolava volontario nuovamente per la campagna A.O. Comandante di compagnia fucilieri, attaccato di sorpresa da soverchianti forze nemiche, fronteggiava con perizia e bravura l’urto avversario. Con il braccio destro spezzato e sotto il fuoco, percorreva più volte la linea incitando i suoi alla resistenza. Colpito a morte, sopportando stoicamente il dolore della ferita, a quanti erano accorsi a soccorrerlo diceva: « Non perdete tempo per me. Andate avanti. Viva il Duce ». Chiudeva con eroica morte la sua valorosa esistenza tutta dedita al dovere e alla Patria. Taga-Taga, 12 febbraio 1936.
“MAGG. GEN GRIFFINI PAOLO 20-10-1860 MACERONE “
Il nome del Generale Paolo Griffini non è direttamente collegabile alle vicende del colonialismo nostrano, ma a lui si deve la nascita dei Cavalleggeri di Lodi (vedi PIAZZA 15° CAVALLEGGERI DI LODI) creati su richiesta di Griffini a Vittorio Emanuele II in onore della sua città natale (vedi Via Griffini a Lodi) a fine della Seconda Guerra di Indipendenza con Regio Decreto il 25agosto 1859.
Festa dei Cavalleggeri di Lodi – 26 ottobre – anniversario del combattimento di Henni – Bu – Meliana (1911)
“CAP.LE ARBASI ANGELO 4-8-1915 MONTE ROTHECH”
La medaglia d’oro assegnata al Caporale Arbasi Angelo in servizio nel 92o Reggimento Fanteria Basilicata per il suo “fulgido esempio di costante ardimento e di incomparabile fermezza” si riferisce alla conquista del monte Roteck o Monte Rosso (in provincia di Bolzano e contorna la Val Senales), una lunga battaglia della prima guerra mondiale iniziata il 04 agosto 1915.
“Ma le azioni di Angelo non finiscono qui; in ottobre viene ferito sul Col di Lana e il 28 ottobre 1916 viene nuovamente ferito su Monte Sief. A novembre passa nei mitraglieri con il grado di caporale (assegnato alla 1120a compagnia mitragliatrici del 241° Fanteria). Da gennaio 1919 assegnato in Libia e a novembre viene congedato. Ritorna nella sua Lodi da Medaglia d’Oro (gli viene conferita il 28 settembre 1919) ma nonostante questo accetta umilmente il lavoro da messo dell’Ufficio Ragioneria, che per lunghi anni porterà avanti con semplicità e riserbo, lui che avrebbe diritto ad essere annunciato da tre squilli di tromba all’ingresso in una qualsiasi caserma del Regno.”
Del passaggio in Libia del Caporale Arbasi Angelo è difficile rintracciare informazioni ma più semplice é indagare sul Reggimento di appartenenza che “nel 1911-1912 prese parte, in Libia, alla guerra italo-turca, al comando del colonnello Armando Diaz, futuro Maresciallo d’Italia e Duca della Vittoria. In precedenza, nel 1904, Rodolfo Graziani, altro futuro Maresciallo d’Italia, aveva prestato servizio nel reggimento con il grado di sottotenente. […] Nel 1935-1936 il 92o Reggimento prese parte al conflitto in Etiopia concorrendo alla mobilitazione del 63° Reggimento Fanteria con il primo battaglione composto da 30 ufficiali e 1002 soldati”
Motivazione Medaglia d’oro al valor militare
Ferito ad un braccio mentre, ritto nella persona, tagliava i reticolati nemici, visto cadere il, proprio ufficiale, che gli era vicino, mise fuori combattimento l’uccisore. Nell’accingersi poi a porre al sicuro la salma del superiore, essendo stato ordinato l’assalto alle trincee avversarie, vi partecipò con mirabile valore per ben due volte, tornando non appena possibile, ad ultimare il generoso compito già prima interrotto. In seguito, ferito ad una spalla, continuò a combattere con impareggiabile tenacia; colpito per la terza volta, si slanciò con furia sulla trincea nemica, infliggendo gravissime perdite ai difensori della stessa. Si portò quindi strisciando sul terreno, in altro tratto di trincea avversaria, dalla quale continuò a far fuoco per ancora 5 ore, dopo che il suo battaglione aveva ripiegato, ritirandosi infine egli stesso durante la notte e riportando ancora utili informazioni. Fulgido esempio di costante ardimento e di incomparabile fermezza. Monte Rothech, 4 agosto 1915
“S.TEN DALL’ORO GAETANO 29-8-1937 MECATEA BERGHEMEDER “
Nato a Lodi nel 1913, tentati gli studi universitari li interrompe per iscriversi alla Scuola allievi ufficiali di complemento di Spoleto dalla quale uscirà nel 1934 con il grado di sottotenente; dopo aver ultimato il servizio di prima nomina presso il 93° Reggimento fanteria partì per un periodo in Tripolitania (il 25 settembre 1935) dalla quale rientrò per parteciare all’inizio della Guerra d’Etiopia.
Sbarcato a Massaua il 13 dicembre 1935, nel marzo del nuvo anno entra da volontario nell’8° Gruppo battaglioni eritreo e in forza al XXV Battaglione partecipa all’occupazione di Dessiè e alle operazioni di polizia nel territorio dei Beghemeder nell’Harrar. Qui cade infine a fianco suo comandante di battaglione, il maggiore Edgardo Feletti, anch’egli Medaglia d’Oro, a cui è dedicata una strada del paese natale, via Capitano Edgardo Feletti a Colle Umberto, provincia di Treviso.
Le vicende di Dell’Oro e Feletti sono narrate nel libro “La colonna Feletti” di Giuseppe Berto, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano, che ha partecipato dal vivo alle operazioni della guerra ‘Abissinia con un passato da Avanguardista, Giovane fascista e ufficiale nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Motivazione Medaglia d’oro al valor militare
«Facente parte di una colonna assalita da preponderante massa ribelle, ferito il comandante e caduto l’altro ufficiale, combatté strenuamente per oltre 36 ore respingendo ogni tentativo nemico. Esaurite le munizioni, nonostante l’ordine ricevuto di ripiegare su di una vicina vice residenza, volle, benché certo di soccombere, rimanere con i pochi al fianco del suo superiore ferito e impossibilitato a muoversi fino a quando non cadde sopraffatto dal nemico. Mirabile esempio di stoica abnegazione e profondo attaccamento al superiore. Mecatea Beghemeder, 29-30 agosto 1937. [3]»
— Regio Decreto 21 novembre 1938.
“CAP. ROSSI ERCOLE 21-4-1942 YOT”
La vicenda del Capitano Ercole Sante Rossi e la motivazione che sta alla base dell’assegnazione della Medaglia d’oro al valor militare ci riporta ad una vicenda poco conosciuta ma esaltata nel mondo della destra (e dai siti della destra) nazionale, quella de LA REPUBBLICA FASCISTA DELL’HIMALAYA fondata nel campo n.25 di Yol in India, dai soldati italiani prigionieri dell’Esercito inglese che non avevano accettato e riconosciuto la validità dell’Armistizio a partire dall’8 settembre 1943
Ercole Sante Rossi “nasce nel 1899 a Secugnago […] Diciottenne, venne chiamato alle armi e, dopo avere frequentato a Parma il corso allievi ufficiali, partecipò come sottotenemte di complemento alla prima guerra mondiale nell’11° reggimento fanteria della Brigata Casale. Nella battaglia del Piave nel giugno 1918, rimase gravemente ferito. Promosso tenente, fu collocato in congedo nel 1920. Diplomatosi in ragioneria, si dedicò all’azienda paterna e ricoprì nella vita pubblica incarichi amministrativi per diversi anni. Nel maggio 1940, fu richiamato col grado di capitano presso il 24° reggimento fanteria e nel novembre successivo fu trasferito in A.S. (Africa Settentrionale). Assegnato al XXVII battaglione mitraglieri autocarrato, cadde in mano nemica il 18 gennaio 1941 durante il ripiegamento su Bardia.”
Le cronache parlano di circa 10 mila italiani catturati dalle truppe inglesi a partire dal gennaio del 1941 in Africa orientale e ospitati fino al 1946 insieme a prigionieri di altri paesi in un campo a circa 1.800 metri di altezza alle pendici dell’Himalaya, in territorio indiano ma al confine con il Tibet e l’Afghanistan.
“Nel corso della Seconda guerra mondiale i soldati italiani catturati dagli Alleati vennero distribuiti ai quattro angoli del mondo: 120mila erano nei campi statunitensi, 70mila in quelli sovietici e la maggioranza, 400mila, in quelli britannici. Questi ultimi furono detenuti in tutti i paesi dell’Impero britannico (Kenya, India, Sud Africa, Egitto, lo stesso Regno Unito, ecc..).
I militari italiani catturati sui campi di battaglia dell’Africa settentrionale, dopo un lungo viaggio furono portati India, smistati in diversi campi nella pianura (Bophal, Bangalore…) e molti di loro, furono portati nella città di Yol, nel distretto di Kangra, presso Dharamsala, all’inizio del secolo scorso sotterrata da una frana […] Le cose cambiarono all’indomani dell’8 settembre, quando, come in altri campi gestiti dagli Alleati, i prigionieri si divisero tra cooperatori e non cooperatori. Dei 10mila ufficiali presenti al momento a Yol, un quarto, 2.500 si dichiararono fascisti non cooperatori. Gli uomini erano nel complesso giovani ufficiali, 700 dei quali erano appartenenti alla Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale. Era molto bassa la percentuale degli appartenenti alla Regia Marina e alla Regia Aeronautica. Non mancarono le adesioni di ufficiali superiori di carriera: trentacinque tra cui sei colonnelli, cinque dell’esercito e uno della Polizia dell’Africa Italiana. […] A Yol, il 21 aprile 1942 (il “Natale di Roma”, in epoca fascista festa nazionale) ci furono manifestazioni e fiaccolate, mentre cantavano l’Inno a Roma. Un drappello di soldati indiani, comandati dal capitano Wilson, aprì il fuoco sulla massa dei manifestanti, colpendo alle spalle Ercole Rossi e Pio Viale, due capitani anziani che si ritiravano, obbedendo agli ordini. Sono poi stati insigniti della medaglia d’oro al valor militare.
Il campo 25, subì la trasformazione in campo di non cooperatori tra il gennaio e il febbraio 1944 e si autodenominò facendo proprio l’ironico appellativo degli inglesi RIF (Repubblican Italian Fascist). La storia dei venticinquisti, che vollero continuare a essere trattati come prigionieri di guerra, d’ora in poi non presenta aspetti particolari. Nel dopoguerra – in un’Italia che vuol dimenticare la guerra – per un breve periodo pubblicano il periodico – Campo venticinque – “
Nel 2010 il comune di Secugnago (LO) ha intitolato a Ercole Sante Rossi e al fratello, Ettore, una strada cittadina (Via Fratelli Rossi Ettore ed Ercole Sante) https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=60895
Ettore Rossi “dopo aver partecipato alla I guerra mondiale, guadagnandosi una medaglia d’argento al valor militare, si laureò a Pavia, diventando interprete del governo italiano in Libia nel biennio 1920-22.
Dal 1922 fino all’anno della morte fu dapprima redattore della rivista orientalistica Oriente Moderno, edita dall’Istituto per l’Oriente di Roma, e poi suo Direttore fino alla morte.
Vinse il concorso a cattedra a Roma di Lingua e Letteratura turca nel 1939 e nel 1955 fu nominato Socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Fu anche ottimo codicologo e a lui si deve il Catalogo dei Manoscritti turchi della Biblioteca Vaticana (Città del Vaticano, 1953).
Ha pubblicato oltre 150 articoli di storia, cultura e letteratura del mondo islamico contemporaneo su Oriente Moderno. “
Capitano cpl., 24° rgt. fanteria, XXVII btg. mitraglieri autocarrato.
Durante la prigionia trasfondeva nei compagni cui la sorte lo aveva accomunato, la sua fierezza di combattente sostanziata da ardente amore per la Patria esausta in conseguenza di avversi avvenimenti bellici. All’ordine perentorio dell’autorità detentrice di scioglimento di una riunione di ufficiali, che nella ricorrenza di una festa nazionale si erano fraternamente raccolti per ricordare la Patria lontana con nostalgiche canzoni di guerra e inni patriottici, si opponeva con dignitosa fierezza e anziché piegarsi all’imposizione preferiva affrontare da forte la prevista immancabile reazione a fuoco che ne stroncava la fiorente giovinezza. — Yol (india), 21 aprile 1942.
“T.V. FORNI ANTONIO 12-7-1940 MAR ROSSO” Tenente di Vascello (O.) di cpl. M.M. 283a Squadriglia Aereosiluranti
Tenente di vascello R.S. (Ruoli Speciali) e osservatore “nasce a Fombio (Milano) il 6 aprile 1908 (Wikipedia), diplomatosi capitano marittimo a La Spezia, si arruolò volontario in Marina nel 1927 e ammesso al corso allievi ufficiali di complemento nell’Accademia Navale di Livorno, nel novembre 1928 fu nominato guardiamarina. Nel giugno 1936 venne iscritto nel ruolo speciale col grado di sottotenente di vascello e sei mesi dopo fu promosso tenente di vascello.
Dal 1931 al 1932 fu di guarnigione a Tien Tsin [possedimento coloniale italiano in Cina, amministrato dal Regno d’Italia tra il 1901 e il 1943] col battaglione San Marco rientrato in Italia
fu inviato a Taranto per frequentarvi il corso di osservazione aerea. Nominato osservatore nel 1934, prestò successivamente servizio presso le squadriglie idrovolanti 188^, 143^ e infine alla 183^ ad Elmas dove rimase fino al dicembre 1937.
Destinato a Massaua alla base aerea di Gura (in Eritrea, l’aeroporto principale del fronte settentrionale della Guerra d’Abissinia), si distinse nelle operazioni belliche nel Mar Rosso dopo il giugno 1940. Rimpatriato nel febbraio 1941 e, frequentato il corso per aerosiluranti a Gorizia, venne assegnato alla 283^ squadriglia aerosiluranti con la quale partecipò poi alla battaglia aeronavale del 23 luglio.” https:// http://www.combattentiliberazione.it/movm-dal-1935-al-7-sett-1943/forni-antonio
Il 27 agosto 1941 il suo aereo viene abbattuto dalla nave mercantile armata Deucalion a 40 miglia a nord di Capo Bougaron (Algeria) , per onorarne la memoria venne decretata la concessione della Medaglia d’oro al valor militare così come al suo pilota, il tenente Pietro Donà delle Rose.
Data del conferimento: 26/09/1942
Motivazione Medaglia d’oro al valor militare
“Partecipava, due volte nella stessa giornata, all’attacco contro una potente formazione navale nemica scortata da portaerei. Entrambe le volte attaccato da preponderanti forze da caccia, contribuiva all’abbattimento sicuro di tre apparecchi nemici e a quello probabile di un quarto. Nel secondo combattimento, con l’apparecchio ripetutamente colpito e con feriti a bordo, protraeva la strenua difesa del velivolo sino a quando gli attaccanti, duramente provati erano costretti a ripiegare. In una successiva azione di siluramento contro un incrociatore nemico, nella quale il suo velivolo aveva il compito di impegnare al massimo il fuoco dell’incrociatore per consentire, ad altro aerosilurante, di effettuare il lancio con esito sicuro, incurante del rischio mortale permaneva sotto il tiro concentrato permettendo così il pieno raggiungimento dello scopo. Centrato dal fuoco della nave, precipitava in mare: superbo esempio di tenace ardimento e di dedizione fino al sacrificio. Cielo del Mediterraneo Orientale, 23 luglio 1941.”

SECONDA TAPPA: LAPIDE AI CADUTI DEL COLLEGIO VESCOVILE 1940 – 45
Via Legnano, 24 Parete di un corridoio del Collegio Vescovile di Lodi
Posizionata in occasione del XXV di fondazione del Collegio

SULLA LASTRA PARTE CENTRALE-BASSA:
S.TEN. COSTA ALESSANDRO 04-01-1941 FRONTE ALBANESE TEN.V. GATTI ALFREDO 17-09-1940 MEDITERRANEO OR. SOL. CISERANI PAOLO 23-08-1942 FRONTE RUSSO ALL.UFF. COSSANDI RENATO 16-08-1943 BOMBARD.ROMA
S.TEN MANTOVANI GAETANO 24-10-1942 CIRENAICA
SOLD. VACCAROSSA LUCIANO 11-02-1944 ACQUE DI RODI S.TEN. NEGRI GIOVANNI 13-02-1944 PRIG. RUSSIA
CAPOR. MALAREGGIA GIOVANNI 21-06-1944 S. COLOMBANO.L. CAP.MAGG. BERETTA MARIO 25-07-1944 BOMBARD.PAULLO SERG., MOLINELLI GIOVANNI 17-08-1944 OBOLO DI GROPPELLO S.TEN. ZANABONI AMBROGIO 21-02-1945 MONTALTISSIMO LUCCA MAPELLI GIOVANNI 25-04-1945 LODI
SOLD. TURCONI ENRICO 28-02-1945 SERAJEVO
TERZA TAPPA: PIAZZA BROLETTO

In Piazza Broletto, nel centro cittadino, a fianco del Duomo di Lodi e sotto i portici del palazzo che ospita gli uffici dell’amministrazione comunale, si trova una lapide dedicata “ai soldati di Lodi e circondiario caduti in Africa”. La lapide viene inaugurata il 2 marzo 1902 dalla Società M.S. Esercito Lodi; quest’ultima, fondata il 20 settembre 1880, trovava “Direzione e amministrazione presso la Sede Sociale in LODI in via Garibaldi n.13”. Tra i vari nomi dei soldati caduti troviamo quello di:
OLIVARI CAP. CAV. EMILIO, “nato a Lodi nel 1861. Facente parte della 2a compagnia dell’ VIII Battaglione Indigeni. Veterano coloniale, insignito della croce da cavaliere ad *Agordat I (1890), della medaglia di bronzo ad Agordat II (1893), e di tre argento per Coatit, Macallé e Adua ove gloriosamente cadde sembra il 1° marzo 1896.”
Come in altri territori del Corno d’Africa, anche in Eritrea la colonizzazione italiana prende le mosse, a fine Ottocento, da iniziative di tipo commerciale, che velocemente si concretizzano anche da un punto di vista politico. Nel 1889, il trattato di Uccialli tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia riconosce ufficialmente l’Eritrea come colonia italiana, ma tale trattato viene poco tempo dopo denunciato dal contraente etiope e abrogato, nonché sostituito, dal trattato di Addis Abeba del 1896, che riconosce l’indipendenza dell’Etiopia ma al contempo anche la presenza italiana in Eritrea. La colonia eritrea, nella quale viene inviata nel tempo una notevole quantità di coloni, viene utilizzata come base logistica della guerra d’Etiopia. Con la conquista di Addis Abeba, l’Eritrea entra a far parte dell’Africa Orientale Italiana e ne segue le sorte durante la seconda guerra mondiale.
Nella battaglia di Agordat I del 1890 si fronteggiarono le truppe coloniali italiane e i guerrieri Dervisci: quest’ultimi vennero sconfitti.
La seconda battaglia di Agordat del 1890 vide contrapposti gli stessi rivali della prima e nuovamente vittoriose le truppe coloniali italiane.
La battaglia di Coatit venne combattuta tra il 13 e il 14 gennaio 1895 tra le truppe coloniali italiane del generale Oreste Baratieri, comandante della Colonia eritrea, e i guerrieri del ras Mangascià, sovrano della regione di Tigrè; la battaglia si concluse con una netta vittoria italiana, il che consentì l’occupazione, seppur temporanea, della regione.
L’assedio di Macallè durò dal 15 dicembre 1895 al 22 gennaio 1896, nell’ambito della guerra di Abissinia tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia; la piccola guarnigione italiana del forte di Enda Jesus a Macallè, al comando del maggiore Giuseppe Galliano, resistette all’assedio del principale esercito etiope, guidato dallo stesso negus Menelik II d’Etiopia, per capitolare poi dopo un accordo tra i due contendenti.
La battaglia di Adua, momento culminante e decisivo della guerra di Abissinia, si combatté il 1o marzo 1896 nei dintorni della città etiope di Adua tra le forze italiane comandate dal tenente generale Oreste Baratieri e l’esercito abissino del negus Menelik II. Gli italiani subirono una pesante sconfitta, che arrestò per molti anni le ambizioni coloniali sul corno d’Africa.

A fianco della lapide del 1902 troviamo quest’altra.
L’11 maggio 1913 avvennero le Onoranze ai Caduti e i festeggiamenti ai reduci di Libia e inaugurazione della lapide. Quest’ultima recita:
Lodi qui incide
i nomi dei forti figli suoi
e degli eroici cavalleggeri
che nella Libia di Roma sacrando
con l’arme e il giovane sangue
la nuova grandezza e la nuova potenza d’Italia diedero alla patria un fulgido serto
di vittoria e di gloria
XI MAGGIO MCMXIII
INIZ. SOC. M.S. L’ESERCITO
Il 10 maggio 1913 avvenne il trasporto delle salme dei seguenti caduti (morti a Palermo): Zanaboni Giacomo (Lodi), Turconi Cesare (Lodi), Marazzina Giulio (Massalengo), Galmozzi Luigi (Sant’Angelo Lodigiano. Lo stesso giorno avvennero i funerali (a cui partecipò anche il Colonnello Schiffi del Reggimento Cavalleggeri di Lodi).
Sindaco di Lodi al tempo era l’avvocato Antonio Ghisi di Unione Liberale (raggruppamento politico di vari partiti liberali).
CESARE TURCONI: “incomincia il servizio militare a Roma nell’arma del genio e dopo pochi mesi al campo della Malpensa. […] L’aviazione entrava allora nel campo pratico per l’indiscutibile efficacia nelle ricognizioni, e la guerra libica richiedeva il modestissimo contributo del povero soldato. […]
Quando la nostra flotta ebbe soggiogato col fulmine dei cannoni la breve resistenza di Tripoli, egli sbarcava sulle cruente terre della Libia per compiere il dovere di buon soldato.
Novello figlio della nostra rinascente Italia, s’apprestava serenamente al sacrifico per la bandiera, pel dovere, per la civiltà, per l’onore. […]
Certamente non incontrò la morte in campo aperto, nè sotto il grandinar dei proiettili colse il lancio della fulgida gloria; però se le sue azioni non assursero ad una bellezza eroica pari a quella dei tenenti Solaroli e Granafei che hanno tessuto coi fili d’oro dell’eroismo la trama di questa fulgente ora di storia, pure nell’adempimento del comune dovere non fu secondo a nessuno.
Sulle inospitali spiagge di Sidi-Said un crudele morbo schiantava la sua forte fibra, e trasportato all’ospedale di Palermo spegnevasi il 4 agosto 1912 […]
ZANABONI GIACOMO: “giornaliere, viveva alla cascina Negrina con la madre e i fratelli.
Da poco tempo sotto le armi quando venne la sua compagnia venne inviata a Tobruk e prendeva parte al combattimento dell’11 marzo in cui venne ferito alla colonna vertebrale. Dopo qualche giorno a Tobruk, venne inviato all’ospedale di Palermo dove morì.”
GIULIO MARAZZINA: “la sua compagnia era impiegata presso l’Isola di Rodi quando venne inviata in Libia per ricognizioni. Muore non in combattimento ma a causa di un accidentale sparo di un altro soldato durante la pulizia delle armi.”
LUIGI GALMOZZI: “nato nel 1890, caporale, venne arruolato nel 50° fanteria. In seguito a ferite riportate l’8 luglio a Misurata, cessava di vivere all’ospedale di Palermo il 14 luglio 1912.”
Il 28 settembre del 1911 l’ambasciatore italiano a Istanbul consegna nelle mani del governo Ottomano un ultimatum con il quale si chiede alle truppe musulmane di non opporsi all’ingresso dell’esercito italiano in terra libica. Il governo Turco è accusato di ostacolare gli interessi commerciali italiani in Tripolitania e Cirenaica. Le due zone, insieme alla regione più interna del Fezzan, formano l’attuale Libia. Il termine della risposta è di sole ventiquattro ore. Più che un ultimatum è una dichiarazione di guerra.
A nulla infatti serve l’estremo tentativo Turco, di impegnarsi a garantire le prerogative commerciali italiane. L’Italia vuole la guerra e l’ottiene. Già il 17 settembre Giovanni Giolitti, capo del governo, ha superato ogni indugio e comunicato al re Vittorio Emanuele, che la guerra è questioni di giorni.
Il 5 ottobre del 1911, una squadra navale italiana attacca il porto di Tripoli. Dopo un violento
bombardamento, le truppe occupano la città. Uguale sorte tocca al porto di Tobruch. È l’inizio
della guerra, che terminerà ufficialmente col il Trattato di Losanna del 18 ottobre 1912.
Il Trattato non prevede la sovranità piena e intera del Regno d’Italia (come proclamato
solennemente dal governo) bensì la sola amministrazione civile e militare su un territorio che
giuridicamente continua a fare parte dell’impero Ottomano.
Il trattato prevede inoltre il ritiro delle truppe italiane dalle isole del Dodecaneso; la disposizione
non verrà mai attuata.
Perché l’Italia volle a tutti costi scatenare il conflitto? E perché il primo Ministro Giolitti, che ha
sempre rifiutato la radicalizzazione di qualunque scontro, in questa circostanza si dimostra così
deciso nel fare ricorso alla guerra?
Sono almeno tre le ragioni che spingono l’Italia a entrare nel conflitto.
Il desiderio dell’Italia di guadagnare una centralità nel contesto internazionale. Il paese aveva
ricevuto uno smacco (il così detto “schiaffo di Tunisi”) quando sul finire dell’800 la Francia con
un’azione di forza, aveva stabilito un protettorato sulla Tunisia, soppiantando i radicato interessi
commerciali italiani.
A seguito dell’occupazione francese gli Inglesi occupano l’Egitto. Per evitare di rimanere tagliati
fuori dal controllo del Mediterraneo, che nel frattempo grazie all’apertura del canale di Suez nel
1869, ha riacquistato una centralità commerciale, all’Italia non resta che occupare la Libia.
Da tempo, inoltre, l’Italia ha forti gli interessi commerciali e finanziari in terra libica .
È soprattutto la Banca Romana ad essersi con prestiti e finanziamenti, spingendo poi l’intero
circuito bancario a premere sul governo affinché garantisca gli investimenti italiani.
Da ultimo, nel paese è forte la voglia di riscattare la terribile sconfitta di Adua del 1896.
È in particolare quest’ultimo elemento a scatenare nel pase un’ondata nazionalista . Numerosi
sono gli intellettuali che si schierano a favore dell’intervento militare. Da Tommaso Marinetti, a
Matilde Serao, da Gabriele d’Annunzio a Giovanni Pascoli, che il 26 novembre del 1911, a margine di una iniziativa a sostegno dei feriti del conflitto, proclama il suo famoso discorso, “La grande proletaria si è mossa”.
“Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro (i proletari ndr.): una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un
pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.
(…)
A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo.
In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.”
La speranza italiane di trovare un possibile sbocco ai molti disoccupati che affollano il paese, si rivelerà del tutto illusoria. La Libia non diventerà mai un nuovo eden pieno “d’acque e di messi”.
Nata come tale solo nel 1934, la Libia italiana, composta dalle due province della Tripolitania e della Cirenaica (ma non dal Fezzan, regione desertica a sud della Tripolitania),diventa possesso italiano con la ratifica del Trattato di Losanna del 1912. Contro la nuova dominazione inizia subito una lotta di resistenza che, durante il primo conflitto mondiale, sfocia in episodi di aperta insurrezione. Il secondo Trattato di Losanna conferma il possesso italiano di Tripolitania e Cirenaica, ma in entrambe le regioni restano attivi i movimenti di guerriglia che puntano all’indipendenza.
Gli sforzi di pacificazione dei territori sottoposti al controllo italiano prendono avvio nell’anno in cui il fascismo assume il potere, il 1922. Gli accordi raggiunti negli anni precedenti, che hanno concesso alle popolazioni locali alcuni margini di autonomia e organismi di rappresentanza (Repubblica di Tripoli, 1918-1922; Parlamento della Cirenaica, 1920-1923), vengono dichiarati nulli, e i governatori delle due regioni (in particolare, quelli della Tripolitania: Giuseppe Volpi, 1921-1925, Emilio De Bono, 1925-1929, Pietro Badoglio, 1929-1933, ma per la Cirenaica non va dimenticato il ruolo del vicegovernatore Rodolfo Graziani, 1930-1934) si dedicano alla cosiddetta “riconquista” del territorio che, con il governatorato di Italo Balbo, sarebbe diventato la Libia.
Come quelle della Cirenaica, anche alcune tribù tripolitane vengono confinate in aree ristrette; parte delle loro terre è confiscata. Agli inizi del 1930 si conclude, dopo quasi un ventennio di guerra endemica, la riconquista della Tripolitania, mentre a oriente, in Cirenaica, è ancora in atto un forte movimento di ribellione.
“La Libia – ha scritto Manlio Dinucci su “Il Manifesto” del 12 giugno 2009, durante la visita di Gheddafi a Roma – fu per l’aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la Luftwaffe di Hitler: il terreno di prova per armi e tecniche di guerra più micidiali”. Tra queste armi e tecniche micidiali, i mitragliamenti e i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione, con esplosivi chimici, la famigerata iprite, proibita da un protocollo della Convenzione di Ginevra ma in seguito ampiamente utilizzata dagli italiani anche in Etiopia.
QUARTA TAPPA: CAMPANILE DI CHIESA DI SAN ROCCO

“Alla Chiesa di San Rocco, sita in Piazzale Barzaghi 21, in Borgo Adda mancava il compimento del campanile che nella costruzione della chiesa, nel 1909-1911 era rimasto fermo a quasi metà della sua altezza: da anni, Parroci e Popolo andavano raccogliendo mezzi per completare l’opera. Questa venne assunta dalla locale Società Lodigiana dei Cementi che rapidamente e per bene eseguì il lavoro, sicché il 25 settembre 1937, giorno di benedizione del campanile Monsignor Vescovo Calchi Novati potè benedire e inaugurare questa nuova sacra opera che è onore della casa di Dio e dell’edilizia cittadina.
Nella prima riquadratura sopra la base venne murata una lapida con la seguente iscrizione:
Perchè dalla voce dei sacri bronzi Alto si elevi e nei cieli si spanda L’inno di gloria per i forti caduti in Terra d’Africa Perchè l’inno di grazia
Salga a Dio che volle ridata all’Italia Vittoriosa La Romana dignità dell’Impero Plebiscito di fede cristiana e patriotticaAD MCMXXXVII – A. XV E.F.
Alla solenne cerimonia della benedizione intervennero le Autorità Cittadine Civili, Religiose, del Regime Fascista, numeroso festante popolo e molte distinte persone della città. Intervenne anche l’Eg. Sig. Avv. Arpesani, figlio del bravo architetto Cecilio Arpesani autore del progetto della Chiesa, fiancheggiato dai Sigg. Rag. Comm. Luigi Fiorini e Ing. Antonio rappresentanti la sudd. Società Lodigiana Cementi che assunse ed eseguì la costruzione di tutta l’opera.


QUINTATAPPA: VIAITALOGARIBOLDI
Italo Gariboldi nasce a Lodi il 20 aprile 1879 ed è coinvolto in oltre 40 anni di vita militare in molte delle campagne di guerra italiane e, protagonista in particolare di quelle in ambito coloniale: nel 1911-1912 partecita con il grado di capitano alla guerra italo-turca, nel 1936, comanda la divisione di fanteria Sabauda I in Africa Orientale partecipando alla battaglia dell’Amba Aradam , alla prima dell’Endertà e a quella del Tembien, arrivando a occupare il 5 maggio Addis Abeba con i propri soldati. A seguito dell’occupazione é nominato governatore della città e capo di Stato Maggiore del governo dell’Africa Orientale Italiana, ruoli che gli permetteranno di impegnarsi nella repressione della Resistenza abissina anche grazie all’uso dell’iprite e di esucuzioni sommarie.
Il 19 febbraio 1937 è nei pressi quando due studenti eritrei attentano la vita di Rodolfo Graziani (allora Viceré), rimane lievemente ferito, ma nelle ore successive si scatenò quella che passò alla storia come la più feroce delle repressioni coloniali perpetrata da camicie nere e civili italiani i quali fra il 19 e il 21 febbrario finirono per massacrare migliaia di persone: 4 mila secondo lo storico Angelo Del Boca, 20 mila secondo lo storico inglese Ian Campbell mentre per le autorità etiopi furono 30mila le persone uccise in quei giorni.
“Alla voce – massacro del febbraio 1937- , sono calcolate 30mila vittime, mentre 760.300 sono i morti ascritti all’aggressione fascista, uccisi in battaglia, per rappresaglia, nei bombardamenti, nei campi di prigionia, nei villaggi incendiati o da un plotone d’esecuzione.”
In Etiopia il 19 febbraio è giorno di lutto celebrato con una cerimonia nella piazza della capitale che prende il nome dal giorno stesso del massacro (Yekatit 12 appunto, il 19 febbraio nel calendario etiope) dove è eretto dal 1955 un obelisco dedicato alle vittime.
Per Italo Gariboldi il 1938 fu l’anno del rientro in patria che gli gioverà la promozione di generale di Corpo d’Armata per meriti eccezionali, una seconda Medaglia d’Argento al Valor Militare, una Croce al Merito, la commenda dell’Ordine Militare di Savoia, e non ultimo il titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine coloniale della Stella d’Italia. Ma la sua presenza nelle colonie non si esaurisce: da 1° giugno 1940 all’11 febbraio 1941 è al comando della 5^ Armata in Tripolitania diventando dapprima vicecomandante delle forze italiane in Libia e poi succedendo al maresciallo Rodolfo Graziani è nel Comando Superiore e nel Governatorato generale della Libia (24 marzo).
I rapporti molto tesi con il generale tedesco Rommel nel luglio del 1941 gli costeranno un nuovo rimpatrio ma anche questa volta la sua carriera non sembra arretrare, diventa Grande Ufficiale e poi cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e riceve la Medaglia Mauriziana;
Nella primavera del 1942 è inviato in Russia, sul fronte del Don e , nonostante la disfatta delle truppe italiane in Unione Sovietica nel 1943 riceve dallo stesso Hitler la Ritterkreuz (Croce di Ferro) all’Ambasciata d’Italia a Berlino, probabilmente più un modo per quietare i rapporti tesi fra gli alleati che per meriti sul campo di Gariboldi.
Con l’Armistizio decide di rifiutare di continuare a collaborare ancora con i tedeschi e per questo motivo il 15 settembre è internato in Germania e consegnato al governo della Repubblica Sociale Italiana, che lo processa e lo condanna a 10 anni di reclusione anche se riucirà in qualche modo ad ad evadere prima della Liberazione e a vivere indisturabato a Roma fino al 9 febbraio 1970.
La salma verrà riposta successivamente nel cimitero maggiore di Lodi.
SESTA TAPPA: PIAZZA QUINDICESIMO CAVALLEGGERI DI LODI
Cosa accumuna due personaggi all’apparenza distanti (anche nel tempo) come il “sommo poeta” Gabriele D’Annunzio e l’avvocato Gianni Agnelli ? Il 15° Cavalleggeri di Lodi.
L’Avvocato combatté in Africa ottenendo un’alta onereficienza militare proprio quando a fine novembre 1942 fu asseggnato al Reggimento Cavalleggeri di Lodi come comandante di plotone di uno squadrone autoblindo

“Comandante di coppia di autoblindo in azione di ricognizione, ripetutamente mitragliata da bassa quota da numerosi apparecchi nemici reagiva tenacemente, continuando nell’azione malgrado che il suo mezzo fosse stato colpito e immobilizzato. Rientrato alla base ne ripartiva per continuare la missione, raggiungendo per primo e interrompendo una importante rotabile”.
(13 febbraio 1943)
Questa la motivazione alla base dell’assegnazione della Croce di Guerra al Valore Militare .
Nella Cavalleria risiede una delle tradizioni della famiglia Agnelli: il nonno, il senatore Giovanni Agnelli, aveva frequentato l’ Accademia militare di Modena conseguendo il grado di ufficiale di cavalleria di prim’ordine, ma dopo la Libia e la prima Guerra Mondiale il Reggimento di Cavalleria di Lodi si era dovuto trasformare (a partire dal secondo conflitto Mondiale) in Raggruppamento Esplorante Corazzato (R.E.Co.) “Cavalleggeri di Lodi” il cui compito una volta sbarcati gli Anglo- Americani in Africa settentrionale francese era diventato l’ passando prima dalla Libia.
È proprio alle gesta del 15° Reggimento Cavalleggeri Lodi nella guerra Italo-Turca per il possesso della Libia che Gabriele D’Annunzio dedica i versi tratti da “Canzone alla Diana” contenuti nell’opera “Merope”, Canti della Guerra d’Oltremare ” del 1915 (quarto volume delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi)
MAREMMA, CANTO I TUOI CAVALLI PRODI. TRA SANGUE E FUOCO ECCO UN GALOPPO COME UN NEMBO. È LA CAVALLERIA DI LODI,
LA SCHIERA DELLA MORTE. SO IL TUO NOME,O BUON CAVALLEGGERO MARIO SOLA.
GIOVANNI RADAELLI, SO IL TUO NOME; AGIDE GHEZZI E IL TUO. “LODI” S’IMMOLA.
E VEGGO I VOSTRI VISI DI VENTENNI ARDERE TRA L’ELMETTO E IL SOTTOGOLA O DENTRO I CRINI SE IL CAVAL S’IMPENNI CONTRA IL MUCCHIO, GANDOLFO, LANDOLINA, ALLA RISCOSSA! TUONA VERSO HENNI. TUONA DA GARGARESCH ALLA SALINA
DI MELLAH SU LE DUNE E LE TRINCERE, SU LE CUBBE, SU FONDACHI, A RUINA,
SU I POZZI, SU LE VIE CAROVANIERE.
LA CASA DI GIAMMIL HA UNA CINTURA
DI FIAMMA. APPIE’, APPIE’, CAVALLEGGERE!
“Lodi s’immola “ il motto ufficiale ancora oggi del Reggimento “Cavalleggeri di Lodi” ispirato da questi versi, e all’impresa italo-turca si rifà anche la motivazione della Medaglia d’Argento al Valore Militare assegnata per decreto il 19 gennaio 1913 al Reggimento:
“Per la splendida condotta tenuta dal 1° e 2° squadrone nel combattimento di Henni – Bu – Meliana” (26 ottobre 1911).
Il 26 ottobre – anniversario del combattimento di Henni – Bu – Meliana viene celebrata ogni anno la festa del Reggimento: questo combattimento si inserisce nel quadro più ampio della battaglia di Sciara-Sciat giudicato da molti come lo scontro con il più alto numero di caduti italiani durante la guerra di Libia e allo stesso tempo quello che causò la più forte repressione della popolazione locale specie nell’Oasi di Tripoli.
“L’inaspettata resistenza all’invasione smentisce pubblicamente la propaganda italiana di una terra che è un frutto da cogliere. Appena le cose non vanno per il verso sperato , nei soldati si scatena un furore cieco, animalesco. In seguito a una serie di sanguinosi rovesci alla periferia di Tripoli, alla fine dell’ottobre 1911 le truppe occupanti scatenano una brutale repressione – la città fu messa a ferro e fuoco: forse 1800, su 30mila abitanti di Tripoli furono fucilati o impiccati per rappresaglia -. […] L’uso spropositato della violena è uno degli aspetti più deteriori del razzismo imperialista e i fatti di Tripoli dimostrano come, sebbene l’impero coloniale non sia al livello delle altre potenze bianche, l’efferatezza che gli italiani impiegano per costruirlo non è seconda a nessuno”.
(Francesco Filippi – pag 59-60 Noi però gli abbiamo fatto le strade)
