Tre turchi 2

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Pubblichiamo la seconda e ultima puntata di questa incredibile vicenda raccontata da Maria Chiara Cantelmo in Eredi di migrazioni, figli della battaglia. Tre partigiani ebrei turchi in Emilia Romagna.

La prima puntata si trova qui.

Davide Barbouth in divisa nel 1940; a destra, cinque anni più tardi, fra due compagni.

Il fascicolo di Davide Barbouth è il più corposo (una ventina di pagine) e contiene documenti di vario genere: la documentazione rilasciata dalla Commissione Regionale Riconoscimento Qualifica Partigiani e Patrioti, risalente al 1948; l’istanza di naturalizzazione presentata dallo stesso Davide nel giugno 1957 al Ministero dell’Interno per ottenere la cittadinanza italiana; una richiesta inviata al Ministero della Difesa dal commercialista della sig.ra Teresa Zatta (vedova di Davide), che nell’ottobre 1973 chiese di aggiornare il foglio matricolare militare del marito con l’annotazione del periodo partigiano, ai fini della pratica per la pensione di reversibilità. Il foglio matricolare in oggetto è anch’esso conservato all’interno del fascicolo: si tratta di una pagina per me abbastanza misteriosa e piuttosto sbiadita, proveniente dal Distretto militare di Milano – città dove Davide Barboutk (ricorre anche qui un’ambiguità nella grafia) risulta residente e impiegato come commerciante. Il documento dell’Esercito italiano sembra fare riferimento alla classe di leva di Davide (da quel che si legge, 1938 oppure 1958, che è poi la stessa data indicata accanto alla descrizione della variazione matricolare) e disporre il suo congedo illimitato. Il soldato Davide è stato dispensato dalla leva militare obbligatoria “perché compiuto 32 anno di età”, ma in effetti – come lamenterà in seguito la vedova Teresa – qui non si fa cenno al suo riconoscimento di partigiano. Allo stato attuale non ho altri strumenti per interpretare correttamente questo documento, che ipotizzo essere stato redatto dopo la richiesta di naturalizzazione di Davide (in quanto cittadino italiano, sarebbe stato obbligato a svolgere il servizio militare). La cosa forse più interessante dal mio punto di vista è la fotografia apposta in alto, che ritrae con contorni sfocati un uomo già maturo ed è stata la prima, per qualche tempo unica immagine che ho avuto di Davide. Tra i suoi dati anagrafici risultano omessi i nomi dei genitori, mentre la minuziosa descrizione biometrica indica persino la sua altezza (156 cm) e il suo peso (68.5). Infine, sempre secondo il foglio matricolare, la religione di appartenenza è quella cattolica.

Con affascinante contrappunto, nel medesimo fascicolo la scheda personale del partigiano Davide Barbouth riporta dettagliatamente la sua data di nascita, i nominativi del padre e della madre, la cittadinanza (“apolide ex turco”), i reparti di appartenenza e il grado ricoperto durante la lotta di Liberazione. Il partigiano Corinto (una località che, lo ricordo, aveva fatto parte dell’Impero ottomano) ha combattuto dal 15/5/1944 al 25/4/1945 – con due brevi interruzioni causate da rastrellamenti – prima nella Brigata Garibaldi e poi nel Comando Divisione Val Ceno, diventando capo nucleo (ovvero sergente) responsabile principalmente della Squadra Lanci, al comando di una quarantina di uomini.

In particolare, Davide racconta alla Commissione Regionale dell’Emilia Romagna – che gli riconoscerà appunto la qualifica di partigiano – due azioni di combattimento a cui ha preso parte: nel luglio 1944, mentre i tedeschi cannoneggiavano il paese di Varsi in provincia di Parma, Corinto aiutò un vice-comandante a nascondere le munizioni e le armi; finita l’azione, recuperò tutto il materiale bellico che venne nascosto nel bosco di Pezzola e minato con l’obiettivo di colpire i repubblichini durante il tentativo di recupero da parte di questi ultimi. Ancora, nel gennaio 1945 a Pellegrino Parmense il partigiano di origine turca fece sparire “una trentina di tonnellate di munizioni ed esplosivo”, lavorando con i suoi uomini senza sosta per quattro giorni e quattro notti, e “risparmiando in questo modo l’incendio da parte dei tedeschi di tutto il paese”. Corinto fu l’ultimo a lasciare Pellegrino mentre i tedeschi avanzavano.

Proseguendo nella lettura del fascicolo, ho scoperto che “Jiumbo Menasce Vittorio di Parma” viene indicato da Davide come uno dei compagni che potrebbero testimoniare la sua attività partigiana: i due, quindi, si erano conosciuti verosimilmente nel Comando Divisione Val Ceno e avevano combattuto insieme. (Chissà che rapporti avevano avuto, se avevano condiviso storie e ricordi del loro paese, delle loro famiglie, della loro vita in Italia…)

Purtroppo tutta questa documentazione non chiarisce come mai Davide Barbouth si fosse unito ai partigiani proprio nel Parmense (dopo la guerra risulta domiciliato a Milano e prima ancora forse a Salsomaggiore), né riporta alcuna notizia sul suo internamento a Ferramonti e poi a Calcinato, a cui fanno invece riferimento l’archivio del CDEC e l’elenco di ebrei stranieri internati in Italia.

Una testimonianza del periodo di Davide a Calcinato potrebbe essere presente nelle memorie di Mosè Dana (32), anche lui un ebreo originario della Turchia (ma nato a Milano), che nel maggio 1944 fu deportato insieme alla famiglia nel lager di Bergen Belsen. Mosè Dana, poco più che bambino, rimase prigioniero proprio in quella sezione del campo riservata agli “ebrei da baratto” di cui ho scritto, e sopravvisse alla Shoah insieme ad altri connazionali che vennero liberati nel marzo 1945. Il racconto di Mosè offre uno scorcio sulla vita degli ebrei turchi durante il fascismo: a seguito delle leggi razziali l’intera famiglia, che era emigrata da Istanbul, perse la cittadinanza italiana, ma riuscì a riottenere il passaporto turco perché il padre aveva continuato a pagare la tassa annuale al consolato. Allo scoppio della guerra la piccola comunità dibatteva sul da farsi: era più sicuro tornare in Turchia? Ma come, con le frontiere chiuse e mezza Europa occupata dai nazisti?

Nel 1941 la famiglia Dana decise di lasciare Milano, divenuta ormai troppo pericolosa a causa delle bombe e dei fascisti, e sfollò nel paesino agricolo di Calcinato, in provincia di Brescia, dove già risiedevano alcuni ebrei apolidi obbligati al confino. Mosè descrive la grande casa con il cortile rettangolare e il porticato su cui affacciavano gli appartamenti delle famiglie ebree; insieme alle persone che avevano aiutato i Dana abitava anche “il signor Davide Barbouth, un giovane scapolo”. Durante la settimana il signor Barbouth portava i bambini a pescare con lui nel torrente vicino.

A parte questo dettaglio di intimità quotidiana, la testimonianza non dice altro su Davide: né se in precedenza fosse effettivamente stato internato nel campo di Ferramonti, né come fosse finito a Calcinato, né dove fosse andato successivamente. Dopo l’8 settembre 1943 la famiglia Dana dovette lasciare il paesino e tornare a Milano; possiamo immaginare che Davide, tra l’agosto 1943 (ultima data di permanenza registrata a Calcinato) e il maggio 1944 (quando si unì alle brigate partigiane nel Parmense), fosse stato a sua volta costretto a fuggire, nel pieno caos che seguì all’armistizio.

Per quanto riguarda la prigionia a Ferramonti, il campo di concentramento edificato in provincia di Cosenza era entrato in funzione nel giugno del 1940 per internare principalmente gli ebrei stranieri (33): Davide poteva forse aver fatto parte dei primi gruppi di ebrei arrestati in diverse città dell’Italia centro-settentrionale e deportati nel campo ancora in costruzione?

Il suo arrivo nel Parmense e l’indicazione della sua residenza a Salsomaggiore subito dopo la guerra (che compare in uno dei documenti forniti da Davide alla Commissione Regionale) potrebbe avere a che fare con un’altra esperienza di internamento nel campo di Scipione di Salsomaggiore (34) oppure, semplicemente, Corinto si trovava lì al momento della Liberazione?

Nonostante gli interrogativi ancora in sospeso, grazie al fondo RICOMPART ho potuto accertare un’altra informazione che mi stava a cuore: Davide aveva davvero un fratello minore di nome Salomone, nato ad Istanbul nel 1915, cittadino apolide (ex cittadinanza turca), anche lui partigiano con il nome di battaglia Turco – mai nome di battaglia fu più didascalico del suo…!

Come il fratello, anche Turco risulta aver combattuto dal 15/5/1944 (i due fratelli Barbouth dunque si unirono insieme alla lotta partigiana? In quali circostanze?) nella Brigata Garibaldi Parmense e in seguito nel Comando Unico Parmense Zona Ovest Cisa, dove prestò servizio fino al giugno 1945. Nel fascicolo ci sono tre diverse schede compilate presumibilmente da Salomone per il riconoscimento della qualifica partigiana; tutte riportano sostanzialmente le stesse informazioni, specificando che il partigiano Turco ricoprì nel tempo le cariche di cassiere, Comandante Ufficio disciplina e prigionieri e Commissario di distaccamento, in qualità di intendente/sottotenente al comando di oltre quarantacinque uomini. Vengono elencate anche alcune azioni di combattimento di Turco nella Valle del Ceno: nel mese di giugno 1944 partecipò alla presa di Bardi e alla ritirata di Contile (Varsi) – forse questo secondo episodio è lo stesso citato dal fratello Davide? A novembre fu coinvolto in un attacco da parte nemica a Serravalle (Varano de’ Melegari) e nel marzo 1945 a Salsomaggiore; nel maggio 1944 contribuì a un’azione di sabotaggio, la distruzione di Ponte Lanzone nel Piacentino.

Infine, come fa suo fratello, anche Salomone cita “Iumbo (Vittorio Menasce)” tra i compagni in grado di testimoniare la sua attività partigiana.

Il fascicolo di Vittorio Jumbo Menaché conservato nel fondo RICOMPART contiene tre schede per il Riconoscimento Gradi ai Patrioti redatte nel dopoguerra. Esse riportano i dati anagrafici del partigiano, che risulta all’epoca della compilazione (forse 1948) sposato e padre di due figli; i periodi e i reparti partigiani di appartenenza (dal 17/10/1944 al 20/7/1945 Jumbo ha prestato servizio nella Brigata Copelli, nel Comando Divisione Val Ceno e nel Comando Unico Ovest Parmense); i compiti espletati (cassiere e interprete, organizzazione amministrativa) e i gradi ricoperti (sottotenente e tenente); i nominativi di alcuni compagni di lotta (tra i quali non compaiono i fratelli Barbouth).

Viene inoltre specificato che la famiglia ha subito la “spogliazione della casa” come rappresaglia per l’attività di Vittorio, e che lui ha partecipato alle seguenti azioni di combattimento: un lungo rastrellamento subito nella località di Rigollo (Pellegrino Parmense) dal 3 gennaio al 10 febbraio 1945, e due operazioni svolte in qualità di Ufficiale Addetto presso la località S. Antonio (in data 17/11/1944) e di nuovo a Pellegrino Parmense (25/1/1945).

Tra il materiale spicca una dichiarazione dell’Ispettore del Comando Unico Operativo di Parma Giovanni Bruto Madoi, datata 30 novembre 1945 e redatta su carta intestata del Corpo Volontari della Libertà. La riporto integralmente, perché è l’unico documento del genere in cui mi sono imbattuta durante la mia ricerca e perché sintetizza in maniera molto più efficace di quanto potrei fare io la vicenda di “Menache H. Vittorio (Comandante di battaglione Jumbo)”:

L’emarginato è stato addetto dal 17/10/1944 al Comando della 31^ Brigata Garibaldi in qualità di ufficiale pagatore e interprete; successivamente con le medesime mansioni al Comando Divisione Val Ceno; poi, e fino al 20/3/46, al Comando Unico Zona Ovest, sempre con il medesimo incarico. Da questa data e fino alla sua smobilitazione al Comando Unico Riunito, con mansioni amministrative e con il grado di Comandante di battaglione. Partigiano di ottime qualità morali, egli ha subito per otto anni le persecuzioni fasciste e nazifasciste: spoliazione totale; alienazione diritti civili; nel 1943 internato a Scipione di Salso per sei mesi; nel 44 tenuto per 75 giorni quale ostaggio della S.D. in S. Francesco a Parma; il 16/10/44 liberato per uno scambio di prigionieri. Giudizio favorevolissimo per quanto concerne la sua condotta e le sue mansioni. Meritevole sotto ogni aspetto al riconoscimento del grado.

Il riferimento alla prigionia di Jumbo trova pieno riscontro nei documenti della Questura di Parma analizzati dallo studioso Klaus Voigt che, come già accennato, parla di un primo arresto disposto dalla prefettura di Parma nel novembre del 1943 e di un successivo rilascio, avvenuto “a quanto pare per motivi di salute” (35) . Nell’agosto 1944 Vittorio Haim fu arrestato per la seconda volta su ordine della SIPO e del SD di Parma (la polizia nazifascista), che due mesi dopo, all’insaputa della prefettura, lo scambiò con alcuni soldati tedeschi catturati dai partigiani.

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A questo punto della mia ricerca potevo affermare con certezza che i partigiani di origine turca attivi in Emilia Romagna, più precisamente nel Parmense, furono tre (non due) e che combatterono insieme almeno per un periodo, nelle Brigate inquadrate all’interno della Divisione Garibaldi Val Ceno (36) . Conoscevo alcune azioni partigiane a cui JumboTurco e

Corinto avevano preso parte e che oggi sono in un certo senso patrimonio comune – nella misura in cui gli archivi che di quelle vicende conservano testimonianza sono pubblici e accessibili a chiunque. Cosa mi restava ancora da conoscere di questa storia? Fin dove potevo ancora spingermi nel seguire le loro tracce?

Eppure continuavo a farmi altre domande. Alcune erano le stesse che mi ero posta sin dall’inizio, a cui nemmeno i documenti d’archivio potevano rispondere del tutto: perché Davide, Salomone e Vittorio erano venuti in Italia? Che genere di rapporto avevano mantenuto con la Turchia e con la comunità sefardita di Istanbul? In quali circostanze erano diventati partigiani? Come avevano scelto i loro nomi di battaglia? Cosa ne è stato di loro dopo la guerra? Dove sono sepolti oggi?

Sapendo che difficilmente avrei trovato i tre partigiani ancora in vita, già da qualche tempo mi ero messa in cerca delle loro famiglie o di eventuali discendenti. Ho fatto un primo tentativo (abbastanza maldestro) contattando via Facebook alcune persone con lo stesso cognome, e poi mi sono rivolta direttamente alla Comunità ebraica di Milano e a quella di Parma. Nell’aprile 2022 la Comunità ebraica di Milano mi ha messo in contatto con due nipoti di Davide e Salomone, mentre a luglio finalmente (anche grazie all’interessamento del segretario della Comunità di Pisa) la Comunità ebraica di Parma mi ha aiutato a trovare una nipote di Vittorio Haim.

La disponibilità, la generosità e – mi è sembrato – la gioia con cui queste persone hanno condiviso con me i loro ricordi e storie personali hanno decisamente alleggerito lo scrupolo che ho provato nell’avvicinarmi all’intimità delle loro vite familiari. Ho cercato di farlo con delicatezza e con la consapevolezza di star mettendo piede in una dimensione del tutto privata, potenzialmente dolorosa. (Fin dove potevo ancora spingermi…?)

Con lo stesso pudore, riporto di seguito i primi racconti che ho raccolto tramite email e telefono dalle famiglie dei tre partigiani nel mese di luglio 2022.

M. e L. abitano a Milano; Salomone e Davide erano gli zii paterni, essendo loro figlie di un

altro fratello Barbouth, Giuseppe (classe 1906). Conseguito il diploma alle scuole francesi di

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Istanbul , il papà di M. e L. si trasferì in Italia nel 1924, appena un anno dopo la fondazione

della Repubblica turca: le tempistiche di questa migrazione sono perfettamente coerenti con il drammatico cambiamento che è avvenuto in Turchia nelle condizioni delle comunità non musulmane dopo il crollo dell’Impero ottomano. Negli anni Trenta Giuseppe fece arrivare a Genova tutta la famiglia, tranne il padre Simone che rimase ad Istanbul: lo raggiunsero infatti la mamma Rachele Namer con i suoi figli David (il futuro partigiano), Enrico, Alberto, Salomone (l’altro partigiano) e Vittoria; in casa si parlava solo ladino, la lingua della comunità sefardita di Costantinopoli. Nel ’39 una parte della famiglia – inclusi i genitori di M. e L. – si trasferì a Nizza, dove Rachele Namer sarebbe poi deceduta di morte naturale. Davide e Salomone restarono in Italia (ma come sono finiti a Parma?). M. non ha aneddoti della loro esperienza partigiana e non ha mai sentito parlare di Vittorio Menaché, però mi racconta che Salomone ha sposato una donna di Carpi che era stata partigiana con lui, Enrica Cagliumi (o Caliumi?).

Dopo la guerra Davide intraprese un’attività commerciale di abbigliamento femminile, mentre Salomone aprì una fabbrica di calze; entrambi ottennero la cittadinanza italiana, probabilmente anche grazie al riconoscimento di partigiani; nessuno dei due ha avuto figli. Sono entrambi sepolti al Cimitero del Musocco a Milano. Davide, in particolare, è morto nel 1969, ad appena sessant’anni.

E gli altri fratelli Barbouth? Enrico e Alberto modificarono il loro cognome nella versione “turchizzata” Barbut (38): a Nizza Alberto, che era apolide, fu deportato come prigioniero di guerra ma riuscì a scappare, mentre Enrico (che penso abbia mantenuto il passaporto turco) dovette fare il servizio militare in Turchia. L. mi spiega che oggi della famiglia sono rimaste loro – tre sorelle – e due cugini, che vivono in Israele con la loro mamma centenne reduce da due campi di concentramento.

Mentre scrivo posso immaginare Davide e Salomone con il loro volto dell’epoca, perché M. mi ha gentilmente inviato due foto datate 1946-47, in cui i fratelli partigiani sorridono eleganti insieme alle mogli e ai nipotini. M. conserva anche altri due scatti di Davide; uno del 1940 sembra ritrarlo in divisa: è un’uniforme dell’Esercito italiano? Ma se Davide ha ottenuto la cittadinanza solo negli anni Cinquanta, è possibile che avesse prestato servizio militare in precedenza? E come si colloca questa ipotesi in relazione al foglio matricolare dell’Esercito italiano che ho trovato nel fascicolo del RICOMPART? La nipote M. ritiene che, durante la guerra, Davide possa essere stato coscritto in quanto cittadino apolide (naturalmente dichiarandosi non ebreo), così come sembra avvenisse in Francia, dove – sempre secondo quanto mi riferisce M. in base ai racconti di famiglia – anche gli apolidi finivano nell’esercito. Nella seconda foto, risalente al 1945, Corinto è in posa fra due compagni.

Infine, una commovente immagine del 1935 immortala una parte della famiglia Barbouth, forse durante una vacanza estiva: Davide è seduto tra la madre Rachele e la zia, insieme a due donne più giovani e a tre uomini in costume da bagno che gli assomigliano.

Mi ero quasi rassegnata al dispiacere di non poter trovare discendenti di Vittorio Menaché quando sono entrata in contatto con la nipote L.G. (Vittorio era suo nonno), che mi ha a sua volta introdotto a suo zio R. (figlio del partigiano). L.G. mi ha subito mandato la fotografia di una parata del 1947 in via della Repubblica a Parma, in cui Vittorio detto Haim sta sfilando insieme alle autorità locali, indossando credo la sua divisa partigiana – cappello, cintura e maglione scollato a V.

La parata del ’47 a Parma. Vittorio Haim è il secondo da sinistra nella prima fila (immagine fornita dalla nipote L.G. e qui pubblicata con il consenso della famiglia).

Felicissimo di parlarmi di suo papà, R. mi ha raccontato che Vittorio Haim era orfano di padre; per sottrarlo a un duro servizio militare in Anatolia (obbligo a cui furono sottoposti tutti i cittadini della neonata Repubblica turca), la madre e lo zio lo espatriarono trovandogli un impiego come interprete sulle navi da crociera – Vittorio parlava sette lingue, incluso l’italiano.

Sbarcato a Napoli, il futuro partigiano decise di fermarsi in Italia; la famiglia materna lo supportava economicamente come poteva, ma lui si diede subito da fare e cominciò a lavorare come venditore di abiti al mercato. Fu l’inizio di un’attività commerciale che Vittorio riuscì a portare avanti e poi ad ingrandire con successo dopo la guerra; e fu anche l’inizio di una lunghissima storia d’amore, perché incontrò la futura moglie e madre dei suoi tre figli proprio vendendole un maglioncino rosa al mercato. In realtà Vittorio e Giovanna Mercedes (che era originaria di Mantova) si sarebbero sposati ufficialmente soltanto in vecchiaia, molti anni dopo la nascita dei figli e la fine della guerra, quando lui diventò cittadino italiano.

R. mi racconta che a suo padre non piaceva la burocrazia e quindi era stato “un po’ pigro” nelle pratiche per la cittadinanza, sebbene molti ex-compagni partigiani – diventati dirigenti politici a Parma nel dopoguerra – lo incoraggiassero e si offrissero di aiutarlo in tal senso. Cosa ha raccontato Vittorio Haim della sua esperienza partigiana?

Scoppiata la guerra, capì che la situazione in Italia si era fatta pericolosa anche per gli ebrei stranieri e decise di riparare in Svizzera dal fratello Moise; proprio in quelle ore, però, due crocerossine tedesche lo prelevarono da casa sua: prima fu portato in una camera di tortura per essere interrogato e poi venne trasferito nel carcere di Parma, dove ormai si aspettava di essere fucilato. Invece finì nel campo di Salsomaggiore, e forse avrebbe tentato la fuga se non fosse stato liberato attraverso lo scambio con un ufficiale tedesco prigioniero (grazie all’intercessione, sembra, di un sacerdote). Entrò quindi nelle brigate partigiane come interprete e cassiere, con il delicato incarico di spostare il denaro da un posto all’altro. Vittorio Haim ha raccontato alla sua famiglia alcuni episodi – anche se non ha mai spiegato il motivo del nome di battaglia Iumbo: una volta rischiò di morire assiderato perché lui e i suoi compagni rimasero bloccati in un edificio, in pieno inverno, con i tedeschi alla porta (si tratta del “lungo rastrellamento subito nella località di Rigollo” nel 1945, a cui fa riferimento il fascicolo del RICOMPART?). Un’altra volta, durante una marcia in montagna, Vittorio Haim crollò addormentato, mentre alcuni soldati mongoli (39) pattugliavano la zona: pare che a salvarlo furono una bambina, che lo svegliò, e una capra di passaggio, a cui i soldati si misero a dar la caccia.

Prima di conoscermi né il figlio R. né la nipote L.G. avevano sentito parlare dei fratelli Barbouth e pensavano che Vittorio Haim fosse stato l’unico partigiano turco della zona. Jumbo è morto nel 1987 ed è oggi sepolto a Parma.

Diventati adulti, sia il figlio di Vittorio Haim, sia la nipote di Davide e Salomone, hanno viaggiato in Turchia. Non c’erano più parenti o una casa sul Bosforo da visitare.
Con entrambi ho parlato a lungo della mia esperienza nel paese e della situazione politica attuale.

Seguire delle tracce. Trovare. Cercare le origini. Tornare.

Questo racconto sarebbe anche potuto cominciare con un viaggio in battello sul Corno d’Oro nell’afa agostana di Istanbul – l’incredibile profilo della megalopoli che mi è familiare persino molti anni dopo (circa otto) che l’ho lasciato. Quando sono infine tornata ad Istanbul insieme al mio compagno per una breve vacanza, ho trovato la città meno cambiata di quanto mi aspettavo – o forse, semplicemente, di fronte agli sconvolgimenti urbanistici e umani che sono indubbiamente avvenuti, sono io ad essermi sorpresa meno di quanto mi aspettavo. Sul battello che nell’agosto 2022 mi ha portato dalla sponda asiatica al quartiere storico di Galata ho quasi pianto (sì, sarebbe stato un incipit ben più romantico questo, perché – come ha notato acutamente una mia amica turca quella mattina – una storia di migrazioni, nostalgie e ritorni come questa “deve per forza cominciare con un viaggio in battello ad Istanbul”).

Del resto, le origini erano qui: il porto di partenza, il denominatore comune, il paese dov’erano nati e che avevano lasciato Davide, Salomone, Vittorio, il luogo passato a cui mi

stavano riportando dopo molti anni la ricerca, le circostanze, la vita. Mai avrei immaginato che si potesse tornare anche per cercare la storia di altri, per capire, per raccontare.

Durante la mia visita al Museo ebraico di Istanbul forse non ero l’unica a cercare qualcosa: c’erano diversi turisti, tutti stranieri; li sentivo parlare soprattutto in inglese e in spagnolo, li guardavo leggere le descrizioni bilingue e osservare le teche, immaginandomi (ma forse sbagliavo) che in un posto così nessuno ci arrivi per caso, che bisogna avere una passione o quantomeno una motivazione speciale per decidere di visitare un museo abbastanza piccolo interamente dedicato alla storia della comunità ebraica turca, in una città abbagliante che fagocita ogni cosa come è Istanbul.

I tre piani del Quincentennial Foundation Museum Of Turkish Jews sono stati inaugurati nel 2001 in un edificio adiacente alla Sinagoga Neve Shalom; illustrano la storia e la cultura degli ebrei in Turchia a partire dalla loro migrazione nell’Impero ottomano. I pannelli informativi e le ricche collezioni di oggetti (manufatti religiosi, abiti, mobilio…) spiegano la vita familiare, l’organizzazione sociale e politica, i rituali religiosi, le tradizioni (persino culinarie) degli ebrei sefarditi, ma soprattutto il prezioso contributo che la comunità ebraica turca ha sempre assicurato alle istituzioni e alla vita della Repubblica.

L’impronta mi è sembrata tendenzialmente auto-elogiativa e fortemente statalista, ma in fin dei conti onesta (in diverse epoche della propria storia, la Turchia è stata realmente un approdo sicuro e una nuova casa per gli ebrei in fuga dall’Europa) e, di certo, in linea con l’attitudine ufficialmente condivisa oggi dai rappresentanti delle comunità religiose di minoranza in Turchia. Al di là dell’aspetto “sentimentale”, è stato comunque un tassello importante per me, perché ho imparato delle cose che mi hanno aiutato ad inquadrare la storia e il contesto di provenienza dei tre partigiani in una maniera che spero essere più realistica e più completa.

Il viaggio a Istanbul e il confronto con i miei amici turchi, però, hanno aggiunto anche un ulteriore elemento di complessità nel mio approccio alla ricerca: mi sono resa conto che la sua percezione e i suoi elementi di interesse cambiano considerevolmente, a seconda che io la racconti in Italia o in Turchia. Questo non solo perché (banalmente) abbiamo avuto un passato, una memoria e delle esperienze collettive molto differenti tra loro nel periodo storico attraversato da Davide, Salomone e Vittorio – da una parte il fascismo, la deportazione degli ebrei, la Resistenza; dall’altra una Repubblica nata da poco, il kemalismo, la neutralità in guerra. Ma forse soprattutto perché i riferimenti culturali e i contesti politico-sociali dei due paesi restano profondamente diversi anche oggi: ad esempio, è impossibile per me non collegare idealmente la migrazione di Vittorio con la scelta dei moltissimi giovani che tuttora preferiscono abbandonare la Turchia per non prestare servizio militare in un paese investito da forti conflitti, o che per loro non è abbastanza libero, accogliente, sicuro. Allo stesso modo, come potrei non paragonare la storia di migrazione e di lotta della famiglia Barbouth con le rotte e le storie dei molti migranti disseminate oggi in Italia (e in Europa)?

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Mi è sembrato in qualche modo doveroso che l’ultima tappa del mio personale viaggio in compagnia dei tre partigiani fosse dalle loro famiglie, a Parma e Milano. Per me rimangono davvero sorprendenti e tutt’altro che scontati l’accoglienza, la fiducia, il calore che mi hanno riservato il figlio e la nuora di Vittorio, come pure la nipote di Davide e Salomone, quando ho proposto loro di incontrarci a settembre 2022. In fondo, mi sono presentata per quella che sono: una sconosciuta, senza più nessuna affiliazione accademica, che continua a fare ricerca negli archivi pubblici e ficcare il naso nei ricordi di famiglia, sostanzialmente sulle basi di una passione personale, o forse di una curiosità patologica.
Tutto quello che ci siamo detti – la densità di questi incontri, la generosità di R. e di sua moglie, il bacio che mi ha soffiato M. dalla porta – io non lo dirò. Ma quanto è difficile adesso per me separare le informazioni di rilevanza “storica” dalla personalità che ho scoperto severa, orgogliosa ed esigente (ma tuttavia amorevole, protettiva, capace di insospettate tenerezze) di Vittorio; le notizie degli archivi, dalla drammatica decisione dei nonni materni di M. di abbandonare Smirne dopo i massacri contro i greci …? (40) 

Ora capisco meglio l’insistenza della domanda che mi ponevo io e mi poneva provocatoriamente il mio compagno a ogni nuovo pezzo della mia indagine: fin dove potevo ancora spingermi? Cosa avevo ancora bisogno di sapere?

Senza dubbio alcuni dettagli appresi durante le mie conversazioni con le famiglie mi hanno aiutato a confermare o completare la ricostruzione storica emersa dagli archivi; viceversa, credo che anche loro abbiano scoperto – grazie ai documenti che io ho consultato – alcune informazioni in grado di precisare le storie (in verità poche) che i tre partigiani avevano condiviso sulla loro gioventù a Costantinopoli e sulla loro esperienza in guerra.

Per esempio, Vittorio Haim confessò soltanto in vecchiaia al figlio R. che la sua vera data di nascita era il 1904 (non il 1906, come risulta sui documenti ufficiali): la famiglia aveva dichiarato all’anagrafe turca un’età inferiore per sottrarlo alla leva obbligatoria e consentirgli di espatriare.

Per quanto riguarda la prigionia nel carcere di Parma, l’iniziale liberazione di Vittorio per motivi di salute (41) trova forse una spiegazione nei racconti fatti ai suoi figli: pare che, per salvarsi da morte certa, avessero consigliato a Vittorio di farsi passare per matto e che lui seguì il consiglio. A proposito della seconda detenzione a Salsomaggiore, effettivamente Vittorio ricordava la mediazione di un tale don Nino; insieme a lui fu liberato un altro prigioniero del campo, anche se – al momento dello scambio con i tedeschi – i partigiani avevano nelle loro mani un solo ufficiale nemico. Don Nino riuscì ugualmente a negoziare la liberazione di Haim e del suo compagno: “per questa volta”, commentò il sacerdote, “i tedeschi ci hanno fatto credito”.

Nel racconto di R. mi colpiscono dolorosamente alcune cose: la profondità del trauma che Vittorio Haim deve aver subito durante la guerra (per molto tempo, e con grande preoccupazione di amici e parenti, dormì con una rivoltella sotto al cuscino); la sua reticenza ad avviare le pratiche per la cittadinanza italiana e persino a comprare casa (il figlio ricorda continui traslochi e una serie di sfratti per i motivi più disparati); la resistenza di Vittorio a parlare in turco quando i figli, curiosi, gli chiedevano qualche parola.

Mi stupisce un po’ scoprire che, all’indomani della guerra, Vittorio (che non era un ebreo praticante) versasse annualmente una donazione alla Keren Hayesod, l’agenzia di raccolta fondi per Israele. Mi fa sorridere la fretta con cui, a dispetto della sua pigrizia, si precipitava fuori casa appena si accorgeva di aver finito le sigarette (lo schiocco del fiammifero era la prima cosa che suo figlio R. sentiva al mattino). Mi intenerisce, infine, quella sua passione tutta turca per i cetrioli sottaceto con cui puntualmente, e per la disperazione di sua moglie, disastrava la cucina.

Dall’incontro con M. (nipote dei fratelli Barbouth) sono tornata con un fortissimo, quasi solenne, senso di memoria: da una parte, è ancora vivo il ricordo delle origini, delle storie familiari; dall’altra, gli archivi e la documentazione sembrano poter restituire solo in parte le vicende di migrazione e di persecuzione vissute.

Due esempi a mio parere emblematici: nel database degli ebrei stranieri internati in Italia compare anche un Simon Barbouth, registrato come padre di Davide e internato, come lui, a Ferramonti; ma M. è sicura che si tratti di un errore, perché suo nonno paterno (cioè, appunto, il papà di Davide e Salomone) non seguì mai la famiglia in Italia e continuò a vivere ad Istanbul. Peraltro, M. mi ha fatto giustamente notare che i dati anagrafici erano scritti in corsivo ebraico nei documenti di famiglia e in corsivo arabo nei documenti ottomani, per cui accadeva di frequente che i nomi potessero cambiare nella trasposizione in caratteri latini. Questo difetto documentale, del resto, ha riguardato lo stesso partigiano Salomone, della cui esistenza ho potuto accertarmi solo grazie al fondo RICOMPART.

Non ho avuto finora altrettanta fortuna con sua moglie Enrica Caliumi, la giovane donna che mi sorride in quella foto insieme a suo marito e che M. ricorda essere stata partigiana insieme a lui: il Comune di Carpi mi ha inviato le pagine del registro anagrafico che ne confermano la nascita nel comune in provincia di Modena il 22 settembre 1919 e il trasferimento a Milano nell’estate del 1946, insieme al marito commerciante Salomone Barbouth. Tuttavia, per il momento, dell’attività partigiana di Enrica non ho trovato nessuna traccia.

In occasione della mia visita ho potuto condividere con M. anche gli esiti della ricerca che avevo svolto poche ore prima all’archivio della Fondazione CDEC di Milano. Da qualche mese l’archivio aveva riaperto al pubblico in una nuova sede all’interno del Memoriale della Shoah, nei pressi della Stazione centrale. Gli spazi della biblioteca e dell’archivio mi sono apparsi come una sorta di cubo caldo, accogliente e luminoso, in efficace contrasto con l’oscurità dolorosa in cui sono immersi gli ambienti circostanti: si sviluppano tutti intorno al famigerato Binario 21 e ai vagoni in legno che condussero centinaia di ebrei dai sotterranei della stazione alle viscere dei campi di sterminio. Ho camminato accanto a quei carri bestiame con una sensazione claustrofobica di nausea e di incredulità, ma ho anche pensato che forse la mia ricerca non poteva che concludersi davvero lì, e sono stata più che mai grata alle circostanze e alle persone che mi hanno permesso di arrivarci.

Le archiviste del CDEC avevano preparato per me i fascicoli di Davide Barbouth e Vittorio Menaché conservati presso la Fondazione (gli stessi che avevo scoperto tramite il sito). Quella volta confesso di essermi un po’ vergognata nel provare l’eccitazione che mi accompagna sempre quando consulto dei documenti storici – un’eccitazione così inappropriata da provare in un luogo come quello. E tuttavia, ero invasa dalla tenerezza per uno scritto autografo di Davide, redatto l’8 agosto del 1955 sulla carta intestata del suo negozio: “Davide Barbouth. Calze – Maglierie – Camicerie”. Era una dichiarazione indirizzata al Comitato ex Partigiani, relativa al suo riconoscimento come partigiano “con grado di sergente e poi come ufficiale addetto a tutti i lavori della Divisione Comitato prov. di Parma”.

Il fascicolo di Vittorio contiene a sua volta una scheda autografa sull’attività da partigiano, in cui viene menzionato nuovamente il “rastrellamento germano/mongolo” subito per trenta giorni consecutivi tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45 nella zona di Pellegrino Parmense – monte Rigollo. Sono presenti anche diverse fotocopie: il tesserino di riconoscimento provvisorio del Corpo Volontari della Libertà (quello che avevo già visto online), con due dichiarazioni dei comandanti che attestano l’anzianità del partigiano Jumbo; alcune tessere dell’ANPI; un’autorizzazione della Giunta provvisoria di Governo della Provincia di Parma affinché Vittorio rintracci il proprio mobilio “asportatogli, durante il periodo cospiratorio, dai nazi fascisti” (maggio 1945); una dichiarazione delle Carceri giudiziarie di Parma (luglio 1945) attestante la detenzione di Vittorio in carcere “a disposizione del Comando S.D. Germanico” dal 2 agosto 1944 al 18 ottobre 1944, “data in cui venne liberato per scambio prigionieri”.

Questi documenti sono accompagnati da una lettera, scritta a mano a Parma il 16-5-65 (da quel che si può capire) e rivolta ad Eloisa Ravenna, all’epoca segretaria del CDEC. L’autore spiega di aver raccolto da una settimana le fotocopie riguardanti Vittorio con l’intenzione di portarle al CDEC, ma di non aver trovato il tempo per farlo; e continua:

Ora, poiché resto a Parma e non verrò a Milano che per gli esami, e visto anche che le acque delle agitazioni postali sembrano essersi calmate, mi arrischio a spedirtele.
Mi sono anche informato sull’eventuale esistenza di altri partigiani combattenti ebrei nella zona, ma il risultato è stato negativo. Ci sono invece persone che hanno preso parte alla lotta antifascista, ma senza essere combattenti partigiani, essendo alla epoca della guerra di liberazione già esiliati.

La lettera è redatta in una grafia leggibile e pulita, ma purtroppo la firma di questa persona risulta incomprensibile (sembrerebbe un “Fabio…”?): gli stessi archivisti del CDEC non sono ancora riusciti a decifrarla, e nemmeno la famiglia di Vittorio ha saputo darmi degli elementi utili per capire di chi possa trattarsi. L’autore della lettera (forse un ricercatore come me, interessato a raccogliere la testimonianza di Vittorio per fini documentali?) resta allo stato attuale uno sconosciuto.

Mi domando se lui abbia provato un senso di urgenza, legato al fatto che i testimoni e i protagonisti di quelle vicende sarebbero presto invecchiati o scomparsi – un senso di urgenza da cui io francamente non mi sono mai sentita animata, perlomeno fino al momento in cui ho coinvolto le famiglie dei tre partigiani. È stato forse solo a quel punto (dopo più di due anni) che l’idea di scrivere, di ordinare e di condividere integralmente la mia ricerca ha cominciato a torturarmi: mi sembrava di dover restituire qualcosa della mia gratitudine soprattutto a loro, e poi a tutte le persone che mi hanno aiutato in questa ricerca – a volte senza saperlo, a volte solo ascoltandomi pazientemente raccontarla. L’avevo vissuta per lo più come una cosa mia, un fatto personale, una storia privata. Ma, infine, mi pareva di essermi spinta fino al punto in cui non potevo non renderla “pubblica”.

E così, una volta giunta a quella che sembrava la fine (perlomeno provvisoria) della mia indagine tra gli archivi, l’ossessione ha cominciato a riguardare la maniera più efficace e la forma più adatta per raccontare le storie di Vittorio Haim, Salomone e Davide; per scrivere una ricerca che tuttavia mi piace pensare ancora aperta, soggetta ad altre scoperte e a sguardi nuovi, mai definitiva né conclusa.

Mi domandavo insistentemente come potessi esprimere la complessità di una vicenda in cui si sovrappongono dimensioni molteplici e i nodi significativi possono addirittura cambiare, a seconda del punto di vista con cui la si guarda. Soprattutto, volevo essere certa di riportare queste tre storie senza far loro un torto: senza distorcerle caricandole di qualcosa

(un’interpretazione, un significato…) che, in fondo, riguardava me soltanto. Eppure – mi dicevo – chi potrebbe negare che la Storia ha un valore e può essere raccontata anche nella misura in cui ci parla di noi stessi?
Per molto tempo non sono stata capace di scrivere niente di più di un resoconto stringato con tutte le informazioni raccolte, che ho inviato subito alle famiglie dei partigiani, consapevole delle mancanze e delle inesattezze che inevitabilmente sono implicate.

Ma poi, era davvero giusto o necessario rendere pubbliche delle esperienze individuali, dei fatti personali, delle memorie familiari? Non era sufficiente informare le persone e le realtà che avevo incontrato durante la ricerca?
Credo che l’interrogativo più insistente e più amaro riguardasse, in fondo, il perché raccontare; che senso avesse pubblicare queste tre storie; chi potessero interessare. Me lo sono chiesta anche insieme a M. e R., e sinceramente non ho saputo trovare una risposta più onesta o più convincente delle mie stesse domande.

Tuttavia, eccomi a raccontare.
L’unica conclusione possibile che ora riesco ad immaginare per questo mio scritto è ricordare la quantità degli archivi e dei documenti, la varietà delle storie e la profondità delle memorie che può avere a disposizione chiunque si metta alla ricerca del passato oggi. Non è un caso che io abbia voluto segnalare in maniera così pedante tutte le informazioni e i contatti che mi hanno permesso di realizzare la ricerca: le vite dei tre partigiani JumboCorinto Turco erano già lì e aspettavano soltanto di essere esplorate, condivise, ritrovate. A volte la ricchezza delle fonti può offrire delle sorprese davvero inaspettate, come quella che ho sperimentato riconoscendo Vittorio Menaché in una foto scattata a Parma il 9 maggio 1945, durante la sfilata per la consegna delle armi delle formazioni partigiane: nemmeno la famiglia conosceva quest’immagine, che è pubblicata sul sito dell’ANPI di Salsomaggiore. (42)

Vittorio indossa l’inconfondibile baffo e la stessa divisa (cappello, cintura, maglione a V) della fotografia che mi aveva inviato sua nipote L.G. e che lo ritrae nel corso di un’altra parata partigiana nel 1947.

Per finire e al di là delle molte retoriche a cui il mio racconto si potrebbe prestare, l’unico senso collettivo che ancora sono in grado di trovare è pur sempre in questo cammino di uomini e di donne in armi, reduci dalle montagne, eredi di migrazioni, figli e figlie della battaglia.

Bologna, novembre 2022 – marzo 2023

M. Chiara Cantelmo

***

NOTE

32 Ho trovato questa testimonianza di Mosè Dana sul sito del Centro di documentazione del Campo di concentramento di Casoli (1940-1944): Sopravvissuto alla Shoah: la testimonianza di Mosè Dana. Ebreo deportato da Milano nel lager di Bergen-Belsen con tutta la famiglia – CAMPOCASOLI.ORG


33 Sul Campo di concentramento di Ferramonti segnalo del materiale informativo a cura del CDEC, perché il sito ufficiale con la storia del campo (che avevo consultato precedentemente) non risulta più online alla data di marzo 2023: Il campo di Ferramonti di Tarsia – Jewish Refugees (cdec.it).

34 Qui le poche notizie oggi disponibili sul Campo di concentramento di Scipione di Salsomaggiore: Campo di concentramento di Scipione (pietredinciampoparma.it)

35 Ne ho parlato nella nota 26.


36 Per chi volesse approfondire l’organizzazione (per me piuttosto complessa) e le attività della Divisione Val Ceno, in cui combatterono tutti e tre i partigiani turchi: 31° Brigata Garibaldi d’assalto “Forni” – Inquadrata nella Divisione Val Ceno – ANPI SALSOMAGGIORE TERME

37 M. mi ha raccontato che il padre ed entrambe le nonne avevano studiato presso collegi stranieri (circostanza abituale per l’educazione dei giovani di buona famiglia nell’Impero ottomano): di fatto, quando lasciò la Turchia a 18 anni, il papà di M. non sapeva parlare il turco, il cui insegnamento e utilizzo diventarono invece obbligatori a seguito delle riforme kemaliste.

38 Sempre nell’ambito delle riforme kemaliste, dal 1934 fu obbligatorio per tutti i cittadini turchi avere un cognome, laddove in epoca ottomana era molto più frequente l’utilizzo di appellativi o titoli onorifici accanto al nome proprio; furono inoltre vietati i cognomi che facessero riferimento a popolazioni o paesi stranieri (si spiega così la turchizzazione di “Barbouth” in “Barbut”).

39 Forse questi soldati mongoli appartenevano alla divisione Turkestan dell’esercito tedesco, che era composta in larga parte dai prigionieri di guerra reclutati dai nazisti all’inizio dell’invasione in Unione Sovietica. La divisione venne effettivamente impiegata in operazioni di rastrellamento e attacco contro i partigiani in territorio ligure-emiliano, come ricorda per esempio questo saggio di Romani Repetti (attualmente presidente provinciale dell’ANPI di Piacenza): I rastrellamenti nel piacentino – Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza (gracpiacenza.com)

40 M. mi ha spiegato che i suoi nonni materni provenivano da Smirne; la città era stata occupata dalle truppe greche, a seguito della spartizione dei territori dell’Impero ottomano da parte delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. Anche la famiglia materna di M. lasciò la Turchia, probabilmente dopo l’incendio e i massacri avvenuti in città nel settembre del 1922. Quest’episodio fu il culmine dei sanguinosi combattimenti tra greci e turchi durante la guerra di indipendenza condotta da Mustafa Kemal, che si sarebbe conclusa un anno dopo con la fondazione della Repubblica turca.

41 A tal proposito si vedano anche le note 26 e 35.

42 Ho già citato questo sito nella nota 36: l’ho consultato in fase di scrittura per approfondire l’organizzazione della Divisione partigiana Val Ceno.

Soldati mongoli della “Turkestan” passati con i “Ribelli”

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