Decolonizzare la memoria del presente

COMUNICATO Oggi, 25 aprile 2024, come Collettivo Kasciavìt abbiamo installato un nuovo monumento nella città di Milano. Il pilastro di una casa distrutta simboleggia il massacro e la devastazione portati avanti dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, poiché non vogliamo che il dolore di un popolo e la devastazione di una terra rimangano inascoltati e occultati dalla politica colonialista dell’Occidente. Una chiave incastonata nel monumento sottolinea il diritto al Ritorno del popolo palestinese a partire dalla Nakba del 1948, reso di nuovo attuale dall’aggressione in corso in questo momento a Gaza, mentre una targa ricorda tutte le vittime del genocidio e in particolare Abraham Saidam, giovane attore di Gaza che abbiamo conosciuto con il Progetto REC nel dicembre 2022. Abraham ha interpretato Odisseo nello spettacolo All That’s Left to Me, a play about Home, andato in scena il 6 gennaio 2023 a Gaza City. Ucciso dalle bombe israeliane insieme alla sua famiglia il 15 ottobre 2023, sognava di aprire un teatro a Gaza e un futuro diverso per la Palestina, quell’Itaca che non è mai riuscito a raggiungere.

È il 25 aprile, una festa amatissima che aspettiamo tutto l’anno per ritrovarci in uno stesso luogo fisico, per abbracciarci e salutarci nell’augurio di una Liberazione avvenuta ma sempre necessaria e per capire come possiamo ora e per il futuro trovare una direzione da percorrere nonostante le bufere del presente. Lo abbiamo detto spesso, RAM ha il privilegio di occuparsi di memoria e di antifascismo durante tutto l’anno con i propri progetti e con le iniziative che mette in campo ma è ovvio che questo giorno mantiene anche per noi un significato particolare. È per questo che ci riconosciamo nella complessità dei discorsi intorno a questa data soprattutto in relazione al presente e a quello che i popoli stanno attraversando in questa buia fase storica. Per questo la nostra sensibilità va incontro a quella dei compagni e delle compagne del collettivo Kasciavìt, del loro rigoroso lavoro politico e il loro attivismo riguardo alla questione palestinese e di questa azione nata dal frutto delle nostre collaborazioni.

Il gran clamore suscitato dai fatti del 7 ottobre qui in occidente ha riscoperchiato quel vaso pieno di demoni fuori controllo che vent’anni fa inneggiarono a guerre di civiltà contro la barbarie, contro popoli arretrati e violenti, a favore dei baluardi democratici che vanno difesi con l’esportazione della democrazia, quale fosse una merce. Speravamo che questi discorsi post 11 settembre 2001 non avessero più luogo, che non avessero più senso di tornare in auge dopo l’inferno che quell’attentato scatenò e dopo gli irrimediabili errori strategici e morali degli stati occidentali che concorsero a quella riconquista coloniale mascherata da guerra civilizzatrice. Siamo rimaste in ascolto sgomente davanti a un atto di violenza simile e ad una reazione di spropositata ferocia. Nessun intervento promulgato dai media televisivi e rarissimi interventi dai giornali mainstream hanno soddisfatto la nostra necessità di analisi politica sulla questione in corso e sulle sue radici storiche. Ci siamo sentite catapultate in un passato dove la propaganda mediatica spingeva alla guerra totale, dove le ragioni dell’altro non hanno luogo di esistere, dove frasi fatte e superficiali venivano brandite come armi improprie con violenza inaudita anche quando le discussioni avevano come fine ultimo la soluzione del conflitto. Ci siamo ritrovate a fare parte di una civiltà che si crede ancora superiore, nel pieno disprezzo della propria memoria storica e nel discredito totale dell’altro da noi. Abbiamo avuto la certezza in pochi istanti di essere ancora prepotentemente colonialisti e di considerarlo qualcosa di estremamente naturale, insito in noi, nella nostra superiorità culturale.

È stato come svegliarsi di soprassalto e ritrovarsi all’inizio del secolo scorso; come trovarsi a ottant’anni di distanza dalla Liberazione alle porte di un’altra guerra mondiale, sull’orlo di un abisso senza fondo. Difficile non pensare a questo abisso in prossimità del 25 aprile. Rivolgere lo sguardo alla storia, come facciamo costantemente, è sempre più necessario. Cosa è andato storto nella ricostruzione, nella politica, nella memoria delle tragedie appena vissute? Cosa non abbiamo ricordato di ricordare? Ci siamo dimenticati del resto del mondo; intenti a piangere i nostri morti sulle nostre rovine ci siamo dimenticati il dolore degli altri.

Ci sono percorsi della nostra memoria storica che si fermano raggiunti i confini del nostro paese. Il nostro passato coloniale è una memoria interrotta. Fatichiamo a mettere in luce le conseguenze del colonialismo europeo entro le quali siamo perfettamente inquadrati col nostro passato totalitario ma anche liberale e poi repubblicano; fatichiamo a sentirci coinvolti in tragedie che accadono lontano da noi anche se accadono nei luoghi che sono stati territori colonizzati dalle potenze europee di cui noi facciamo parte. Il portato dirompente della decolonialità costituisce a nostro avviso l’unica chiave di lettura per capire la questione palestinese e per tracciare una linea nuova che non permetta di tornare alla fine di ogni ciclo storico allo stesso punto di partenza. Il genocidio del popolo palestinese ci mette sotto gli occhi, senza la possibilità di distogliere lo sguardo, quanto siamo rimasti razzisti, se siamo in grado di riconoscere l’altro e di correre in suo soccorso solo se lo riconosciamo uguale a noi; antisemiti, se non riusciamo a distinguere l’appartenenza religiosa di un popolo con l’appartenenza a una corrente politica ultranazionalista; quanto, in generale, siamo rimasti colonialisti.

Erigere questo monumento è un modo di cominciare a fare i conti col nostro passato coloniale, prendendo in considerazione l’ultima operazione coloniale creata dalle potenze occidentali, una ferita ancora aperta e sanguinante dagli esiti catastrofici. È l’azione che vuole invertire una rotta secolare, quella di cedere simbolicamente parte del nostro territorio invece che colonizzare altre parti del mondo, il gesto di accogliere la sofferenza e la richiesta di aiuto di un altro popolo che non è necessariamente uguale a noi. E’ necessario che il nostro spazio urbano sia lo spazio che accoglie la loro diaspora, la nostra coscienza antifascista non può che essere la loro esigenza di vivere liberi e in pace, la nostra volontà di interrompere questo legame di sopraffazione coloniale è la loro lotta per la fine dell’occupazione.

Collettivo Kasciavìt

RAM Restauro Arte Memoria

foto di copertina: ingresso di Aida Refugee Camp, Betlemme

Lascia un commento