Qualcosa di meglio

Continua il viaggio sulle tracce di chi, settantacinque anni fa, ha sferrato il colpo finale al nazifascismo con e senza armi, dentro e fuori la clandestinità. E siccome il nostro trekking è urbano ma anche onirico, ci spostiamo sul versante opposto alla Cirenaica e risaliamo la valle del Samoggia al seguito dei battaglioni “Artioli” e “Sozzi”, pezzi entrambi della più nota 63a brigata “Bolero”. Ci muoviamo tra i sentieri grazie a un estratto di Qualcosa di meglio di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri (Pendragon, 2019), libro-intervista con Otello Palmieri, ragazzetto fra tanti e tante che sognò la rivoluzione, prima e dopo il 25 aprile.

Otello Palmieri

Stiore di Monteveglio, inizio dicembre 1944

Una manciata di giovani olivetani aveva preso l’abitudine di dormire all’addiaccio. Quasi fosse un gioco, dormivano al cimitero o rintanati dentro cumuli di fieno accatastato nelle aie, «féggn, in dialetto, non so come si chiami in italiano», oppure infilandosi in grosse buche scavate nel bosco usando un tubo per respirare. «E mia madre ci veniva a chiudere il buco credendo che stavamo lì e invece dopo si partiva».

Con l’inverno si diffuse un fervore insolito, considerato l’ordine di starsene tranquilli fino a primavera. Pronti a raggiungere gli Alleati a Montespecchio, una frazione di Montese, si accodarono alla ciurma di Armandén il 12 dicembre. Una settantina in tutto, divisi in gruppetti di «quattro o cinque… non tutti insieme, in fila indiana, ma distaccati l’uno dall’altro». Eliseo Degli Esposti, di 23 anni, e i tre diciassettenni Battagliero, Filippo e Bruno Sarti (Carlo), guidati da Ernesto Marcheselli, classe 1921, disertore dopo due anni di servizio nell’Aeronautica. Si stava sui sentieri di notte, con la luce bisognava nascondersi e rimediare un boccone. Regole semplicissime per uscire dal pantano senza dare nell’occhio. Con la prima alba erano arrivati dalle parti di Guiglia, «subito sopra Serravalle, qui… non è lontano», e si sistemarono in una stalla a Monteorsello insieme ad altre compagnie.

È qui che per la prima volta Battagliero fu tra i ribelli da pari a pari. Non è assurdo immaginarlo con i coetanei a ingannare l’attesa dicendo fesserie e scherzando come se stessero tirando tardi in una sala da ballo. Di tanto in tanto magari si era infilato fra i quarantenni della divisione «Modena», per rendersi utile, oppure era rimasto in disparte ad ascoltare i vecchi, gli integerrimi oppositori del regime che avevano assaggiato le botte del ’21 o erano passati dalle carceri di San Giovanni in Monte senza piegarsi. «Avevamo con noi anche della gente anziana, da aiutare». Chissà se, nell’attesa, qualcuno si era messo a raccontare di Ponza, Procida o chissà quali altri orizzonti carichi di rabbia.

Col buio si poté uscire di nuovo: «siamo andati fuori per andare a prendere da mangiare e abbiamo avuto l’incontro con i repubblichini e siam fatti a fucilate. Non è morto nessuno, però… ci siamo sparpagliati», «uno è andato da una parte, uno è andato dall’altra: quelli che han preso per andare verso su sono andati bene, noi invece ci siam trovati sui nostri passi di prima» o, ancora, «senza guida» come annota sulla trascrizione. Ernesto era infatti tra quelli che avevano preso la direzione giusta.

Tre giorni dopo l’«Artioli» passò la Gotica, giungendo in una terra che per tutti loro è sempre e solo «Toscana», dove ognuno si diede da fare al meglio. Armandén, che era «uno sveglio», fece di più e guidando i camion per gli statunitensi riuscì a racimolare «qualche soldino», investito per andarsene in Venezuela dopo la guerra. I diciassettenni, intanto, non poterono che tornare sui loro passi di prima, «e dopo è venuto giorno, ci siamo nascosti in una boscaglia e poi siam tornati a casa». Ora ci è più chiara la funzione del «Sozzi». Battagliero, Filippo, Carlo, Eliseo e chissà chi altri sapevano nascondersi.

Fino alla primavera poteva bastare. Doveva bastare.

L’ultimo inverno fu il peggiore. Lo dicono le memorie, i romanzi, i libri di storia. Lo dice anche Otello: «il più brutto, è stato brutto per noi, sìsì». Ne è convinto e noi con lui. Forse lo pensava anche allora. «Il più brutto, eh?», continuiamo a girarci intorno. «Eh sì perché… non si fa… e poi c’era la fame». Non si fa l’insurrezione, almeno non subito, è chiaro. Alexander l’ha messo nero su bianco. Per loro però era davvero troppo scendere in pianura. Troppo giovani, troppo inesperti, troppo esposti in un territorio che conoscevano a malapena. E infatti nessuno lo chiese e loro, semplicemente, continuarono a nascondersi al cimitero, nelle figne o «sepolti vivi» sottoterra, come scrive Willy l’olandese.

Vigili per non bruciarsi le coperture e le complicità di chi aveva capito anche senza bisogno di spiegazioni. Attenti, ora più che mai, perché Oliveto sarà stata pure piena di comunisti, ma era sempre meglio non rischiare. Tutto intorno era zeppo di presidi della Gnr, la polizia di Salò, e le pattuglie naziste facevano continuamente la spola fra la valle e Zappolino, lì dove il letto del Samoggia si restringe e salire anche di poco la costa della collina regala un controllo quasi totale sulla vallata. «Giravamo alla larga noi da Zappolino» dice mentre gli scappa un sorriso.

Vigili, attenti, forse rintanati, ma comunque attivi e a disposizione perché quando arrivava un ordine «si andava a fare quello che c’era da fare». Portare armi e informazioni, segnalare movimenti insoliti, agire con discrezione, fare da collegamento. «Perché io essendo così giovane ero come quasi una staffetta, perché non ero renitente […] non mi fermavano, vedevano che… non avevo gli anni». Anche le staffette erano tenute a recuperare pistole, mitra e munizioni, tutti compiti a cui si dedicò con solerzia la minuscola formazione olivetana, ma chissà se i comandi di brigata la considerassero una vera compagnia.

«Abbiam fatto qualche cosa lo stesso. Per le armi» resta sul vago Otello. Ma noi siamo curiosi, vogliamo i particolari, le tattiche, i colpi. Lui si diverte e si lascia convincere.

Ci racconta di vigna dal Plòn, un podere coltivato da una famiglia antifascista appena fuori Oliveto, sullo stradello che scende a Crespellano rimanendo sulla cresta del colle. «Lì c’era un maresciallo dei carabinieri […] e il contadino lì ci ha detto: “guarda che lui lì c’ha una bella Beretta, che andrebbe bene per voi”. E allora ce la siamo andata a prendere». Ride, poi spiega: «Perché i carabinieri», e svanisce appena l’effetto della risata, «li avevano lasciati un po’… di comando, guardavano più che altro che ci fosse l’oscuramento. E ci avevano lasciato anche la pistola, ma… a noi ci voleva di quelle».

«Come avete fatto a prenderla?».

«Ah siamo andati […] abbiam bussato alla porta, abbiamo detto: “Ci dispiace ma noi ci occorre”, e [lui] dice: “E io cosa dico là, cosa faccio?”; “Pensa lei quello che deve dire, noi non possiamo… suggerire; solo che ci vuole quella lì”». E si dileguarono col bottino.

[…]

Il colpo più riuscito, però, fu senz’altro quello a Bosco Stagni, verso Montemaggiore. Il gancio fu «un ragazzo della nostra età», uno sfollato che stava in un podere da quelle parti. Nella boscaglia i nazisti avevano trasformato una «capanna» in deposito di armamenti, al riparo da fonti di luce e dagli avvistamenti aerei. «Avevano messo ’sta cosa in mezzo al bosco, che non si vedeva, e c’era molta munizione per i mitra». Due soldati sempre di guardia, giorno e notte, facevano la spola con la casa colonica a ogni cambio turno, con il ragazzo che «diceva quando [la guardia] era là», dando loro modo di sfruttare il vantaggio e perfezionare l’arte di sottrarre a chi non sta in guardia. E da lì veloci al comando di Monte Biancano, dove «si trovavan sempre […] il comandante Marino e quell’olandese lì». Non male, avrà pensato Beckers, questi diciassettenni senza guida.

Fino a marzo poteva davvero bastare così. O forse no.

I primi mesi del ’45 furono infatti segnati da continui smottamenti di popolo, parole d’ordine che volavano di bocca in bocca, interi borghi che si risvegliavano e sfruttavano le falle del controllo nazifascista. Ne occuparono sistematicamente gli spazi vuoti, così che l’organizzazione clandestina poté riceverne la spinta per intensificare le azioni e portare a casa risultati concreti. Non più solo perdite nemiche, armamenti sottratti, sabotaggi e posizioni guadagnate, ma qualcosa di più ambizioso, e anche di più utile nell’immediato. Ne comprende il valore chi combatte, ma anche chi si rintana, chi cerca di mettere in prospettiva e chi non ha più lenti per guardare in faccia la guerra. Qualcosa di contagioso che si allarga e diffonde un clima di riscossa in cui riacquistano senso i sacrifici di ognuno, come se si distribuisse sulle spalle di molti il dolore dei singoli.

«C’era la fame c’era… non c’era niente, perché […] il coso, come si chiamano, i contadini, quando trebbiavano, veniva un fascista, e si potevano tenere solo… per esempio erano in cinque in famiglia, potevano tenere dieci quintali di grano». Già prima dell’estate, infatti, si era aperto un lungo tira e molla fra le famiglie che ritardarono la trebbiatura, il Fronte della gioventù che sabotò le macchine, i mezzadri che aprirono trattative sulla base del fabbisogno famigliare e non delle percentuali dei capitolati in vigore. Una “battaglia per il grano” irta di rischi, poiché le SS non smisero mai di minacciare la deportazione per chi osava protestare e la polizia fascista controllò militarmente le fasi del raccolto, perché nulla sfuggisse agli «ammassi». Con l’inverno, però, le razioni si restrinsero e i prezzi del mercato nero schizzarono oltre limiti già proibitivi. «Il cibo era andato… era diventato oro. Venivan su da Bologna della gente che aveva speso qualsiasi cosa, poveracci!». Un altro giro di vite ci fu in febbraio, quando i nazisti decisero di bloccare la distribuzione di grano, ponendo gradualmente tutti gli ammassi a disposizione delle esigenze di guerra. Il popolo aveva fame, ma la Repubblica sociale garantì appena le briciole.

Di lì a marzo i depositi alimentari e di prima necessità furono ripetutamente assaltati fra la via Emilia e l’Appennino. In prima fila ci furono soprattutto donne, una costante della storia della conflittualità preindustriale che si riverbera nella guerra, organizzate a spostarsi da un comune all’altro, occuparne le piazze e costringere le autorità a lasciare mano libera durante le distribuzioni. Ma una guerra ai civili, come quella che i nazifascisti stavano combattendo, richiede anche un supporto di altro tipo, armato. Così ogni episodio del genere è riportato nei bollettini di brigata a segnare un passo fondamentale di una più ampia strategia.

Il balzo in avanti arrivò già con il 18 gennaio. L’avanguardia sembrò in perfetto collegamento con il fervore delle masse, ma la prosa scarna da bollettino di guerra ne accenna appena i contorni:

«Una squadra penetra nella casa del fascio di Crespellano distruggendo quadri, gagliardetti e pulendo il muro dalle scritte fasciste. Una squadra del Sozzi ricupera in un magazzino tedesco abbondante quantitativo di generi alimentari».

Gli argini fra potere costituito e ribellione stavano venendo meno. Gli spazi confinati e le tane dei «sepolti vivi» si stavano lentamente trasformando. La presenza partigiana riacquistava quella dimensione di massa, popolare, che terrorizza il nemico, posto davanti alla sua inadeguatezza. «Perché non avevam mica paura di quelli lì» chiosa divertito Otello, «i fascisti non erano più […], avevano già capito che non c’era niente da fare, sì… che la guerra era perduta».

Ogni colpo inferto al nemico, intanto, dava lo slancio per quello successivo:

«21 e 22 gennaio. Le S.A.P. bloccano la piazza e i dintorni di Bazzano mentre un migliaio di persone tengono dimostrazione contro i nazi-fascisti; complessivamente sono stati mobilitati 110 S.A.P. 23 gennaio. La dimostrazione si è protratta anche oggi appoggiata dalle forze armate. Le masse hanno dimostrato reclamando grassi, pane e legna».

Per una volta i risultati si misuravano in chili e litri, dopo anni di requisizioni, di mercato nero e dopo un inverno di sangue. «Noi siamo intervenuti […] diverse volte a difesa del contadino, sì», «anche andarlo a macinare [il grano], ci voleva un visto, non macinava più di quel tanto». Prima Crespellano, poi di nuovo Bazzano il 12 febbraio, quindi Monteveglio il 18. Stesso copione, stesso bottino: «ricuperate da un magazzino tedesco cinque casse di burro, 9 forme gran[a]; distruggend[o] il magazzino». Il diario di brigata si infittisce parallelamente delle azioni compiute dalle «squadre di punta» per recuperare armi e munizioni, «giustiziare» spie e neutralizzare «elementi pericolosi».

«Noi stavamo attenti anche col latte» ci tiene a spiegare, «che andasse nel posto giusto, perché venivano loro e requisivano tutto. Ma a Oliveto son mai venuti i fascisti» ride, «sì… sapevano che c’erano». Oppure che c’eravamo, visto che Filippo e Battagliero fecero la loro parte per far sapere ai fascisti di Monteveglio che era meglio starsene a valle. Il 1 marzo furono senza dubbio al fianco «delle dimostranti di Crespellano e Monteveglio» che presero d’assalto i magazzini di Bazzano asportando, novità, «stoffe e generi alimentar[i]».

«La brigata ha mobilitato tutte le forze proteggendo i manifestanti: 330 partigiani, armi 25 mitra, 3 mitragliatrici pesanti e 120 moschetti, 90 rivoltelle, 600 bombe a mano. Tutte le armi avevano una dotazione di munizioni di mezz’ora di fuoco».

È naturale che dispacci come questo, con le decine belle tonde, abbiano derogato all’esattezza, pur restituendo proporzioni verosimili. Non c’è invece da dubitare che Battagliero, Filippo, Carlo, Eliseo e, tramite loro, CimpoTito e forse addirittura Bolero, Gastone Sozzi e l’immenso zibaldone di anime e fesserie e scherzi per ingannare l’attesa, che insomma tutta questa folla quel 1 marzo ’45 si sia sentita invincibile. Minuto di fuoco più, minuto di fuoco meno.

Per noi non è certo difficile immaginare come una folla invincibile quella gente che a Bazzano si riappropria di formaggi, stoffa e grano. Soprattutto se dai racconti, che trovano riscontro nei bollettini del Comando unico, scopriamo che prima dell’arrivo della 5a armata statunitense «i tedeschi […] li avevamo chiusi!» e che quelli del «Sozzi» cercarono a gesti di spiegare che «era già pulito tutto e potevano venire avanti». Ma poi, quando si mette di traverso l’epopea e il conflitto mai sopito delle memorie, tutto si complica. Cresciuti in territorio ostile, fra una Resistenza che smetteva di essere legittimazione istituzionale e il neofascismo sdoganato da quegli stessi scranni, sotto l’insegna del rispetto democratico di ogni opinione, la gente come noi ha bisogno di un «di più» di racconto. È per questo che negli incontri con Otello lo tormentiamo, insistiamo sugli episodi personali, sul quotidiano, nella speranza che la memoria si allontani dalla narrazione trionfale in funzione di questa o quella parrocchia. Ed è così che spuntano nessi inaspettati e nuovi interrogativi squarciano il velo, come una mano taglia il fumo di sigaretta sul tavolo che riempie la stanza mentre ascoltiamo le registrazioni.

«C’ho anche i nomi di quelli che… da Montarsello di Guiglia siamo tornati indietro» si prodiga lui per darci modo di verificare.

«E questo era già… che periodo?».

«Ah… autunno, il giorno preciso non me lo ricordo…».

«No, per capire se era già primavera o se…» facciamo per scusarci noi.

«No era autunno, quello son sicuro».

«E poi durante l’inverno e la primavera che cosa succede?».

«No no… non ce n’è più tanto, dopo […] siamo già alla Liberazione. E ne abbiamo fatte più dopo che prima, sìsì… con l’attentato di Togliatti fu una tragedia eh».

È in quell’istante, forse, che abbiamo riso di gusto senza fare rumore. O più semplicemente, per la seconda volta, abbiamo deciso che questo libro andava scritto. Valeva la pena provare.

«Quando ti dicono che c’era stato l’attentato a Togliatti, te lo ricordi?».

«Ah sì, sì… quello lo ricordo meglio!».

[Alfredo Mignini, Enrico Pontieri, Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri, Bologna, Pendragon, 2019, pp. 51-60]

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