Due Mondi

Oggi, Yekatit 13, pubblichiamo il racconto “Due Mondi” di Sirio Lubreto tratto da Cronache dalla Polvere, il mosaic novel del collettivo Zoya Barontini sul cuore di tenebra del colonialismo italiano pubblicato da Bompiani con le illustrazioni di Alberto Merlin.

Fragore di scintille

C’è un mondo fatto di atomi e di molecole, di terra rossa da calpestare e acqua fresca da bere. Se cadi correndo, ti sbucci le ginocchia e sanguini. Il cielo è in alto, la terra in basso e sotto di essa riposano i morti che svaniscono un po’ alla volta mentre la nebbia del tempo si condensa nel ricordo di chi li ha conosciuti e amati. Il ruscello scorre sempre nello stesso verso così come il sole, la luna e le stelle, che seguono orbite che sembrano binari e proprio come treni si fanno trovare dove e quando te li aspetti. Nel mondo degli atomi il tuo corpo ti appartiene, le tue gambe ti portano dove vuoi e la tua voce parla una lingua che chi ti sta attorno capisce. Se hai paura puoi gridare aiuto, se ti senti minacciato puoi scappare o difenderti. Il tiranno più spietato potrà prenderti tutto, ma non l’anima, non la speranza, non la fede nel Dio in cui credi. È piccolo il mondo degli atomi, tanto piccolo che fa fatica a contenere tutti i desideri, le paure e i pensieri degli esseri umani. Per questo è agitato e turbolento: rischia di esplodere da un momento all’altro e un giorno un fuoco d’artificio cosmico inghiottirà tutto nel suo fragore di scintille.

Esiste poi un altro mondo, fatto di una materia sconosciuta e imperscrutabile, una polvere sottile e trasparente che ci pervade e unisce tutti. Ce la portiamo addosso anche se non ce ne accorgiamo. È il mondo dei sogni, immenso e inesplorato, senza verso e senza misure: non ci sono né mappe né bussole né astri a indicare il cammino. Si può avanzare solo a tentoni, gli occhi sgranati e le braccia in avanti in cerca di un appiglio o del vuoto. Lì i morti non riposano, si parlano lingue sconosciute e quando si osserva il proprio riflesso in uno specchio d’acqua, si vedono lupi, iene, civette e

gazzelle. Nel mondo dei sogni si può inciampare senza mai cadere e bere senza mai dissetarsi: tutto è possibile e niente è spiegabile, almeno non con le leggi degli atomi. Non ci sono né coloni né colonizzati, terre da conquistare, sovrani davanti a cui inginocchiarsi, bandiere da onorare. Lì siamo soli, senza colore, senza uniforme e senza armi.

È normale e giusto che sia così, perché neanche un esercito può salvarci dall’incubo che ci sta masticando.

La iena

Avanzava zoppicando verso un tucul malmesso in mezzo a polvere e nebbia. La fitta alla gamba destra gli imponeva una cadenza lenta. Appena entrato nella capanna venne avvolto dall’oscurità e da un odore acre. Non riusciva a scorgere niente, ma sapeva di non essere da solo. A mano a mano che gli occhi si abituarono all’oscurità, la saliva si trasformò in una pietra ruvida impossibile da ingoiare.

Il cadavere di una donna era immerso in una pozza di sangue scuro. Una iena divorava le sue carni con il muso immerso nel ventre squarciato. L’animale alzò la testa inzaccherata e lo fissò negli occhi.

Il caposquadra Alfredo Russo si svegliò di soprassalto e si guardò attorno intontito. Dopo un accesso di febbre malarica faceva sempre lo stesso sogno e ogni volta lo sguardo della iena gli restava appiccicato addosso per giorni, regalandogli un ineffabile senso di inquietudine. Poi si dimenticava tutto, fino a quando la malaria non tornava a tormentarlo. In piedi accanto al suo letto c’era Antonio Marra, lo squadrista più scimunito del Corno d’Africa, che gli stava scuotendo le gambe.

“Maledizione Marra, che fai? Non sono mica un albero di manghi.”

Marra scattò all’indietro e si mise sull’attenti gridando un A noi! esagerato per la camerata deserta della milizia coloniale.

“A noi un fico secco, Marra. Non siamo a una parata. Che vuoi? Sono ancora convalescente.”

Antonio Marra il suo meglio lo dava col manganello, non con l’italiano, ma ce la mise tutta per fare un quadro preciso della situazione al suo caposquadra: “Gli inglesi hanno bombardato lu ghebbi co Graziani e tutti quanti dentro. Mo’ Graziani è ferito, cioè, forse è morto, che s’è preso ’na

bomba proprio int’ alla faccia. Cortese sta comma lu pazzo che gliela vuole fare pagare ai negri, che pure voi lo dite che so’ come le serpi, però sta pure cacato sotto che in Italia pensano che qua siamo una manica di mammolette che si fanno fregare dai selvaggi: e perciò bisogna di’ che so’ stati gli inglesi. Che però Cortese lo pensa veramente che pe’ dietro a li negri ci stanno gli inglesi e pure il capomanipolo Verdi lo dice. Allora mo’ ci dobbiamo organizzare e dobbiamo fare le squadre per fargliela pagare ai negri… O agli inglesi… Questo non l’ho capito. E ci servite pure voi; l’ha detto Cortese in persona ca nun ci deve mancare nisciuno: pure li sciancati devono dare di curbascio.”

Alfredo Russo guardava sconsolato la sagoma grottesca dello squadrista agitarsi davanti a lui: un metro e novanta di grasso e muscoli distribuiti a casaccio, la mascella storta a sinistra animata di vita propria e un leggero strabismo che rendeva impossibile capire dove stesse guardando. Madre natura aveva altro per la testa quando aveva messo assieme il camerata Marra. Mascella e zeppola polifonica però non erano frutto della natura, ma di una badilata assestatagli da un contadino lucano dieci anni prima. Il bolscevico con la pala non era sopravvissuto abbastanza a lungo per raccontare a chicchessia di come aveva risposto a chi voleva confiscargli mezzo quintale di raccolto, ma aveva comunque lasciato il suo segno.

Marra aveva accompagnato ogni frase con ampi movimenti di braccia e testa, come volesse sottolineare lo sforzo sovrumano che stava compiendo per raccontare quella storia così complicata senza tralasciare alcun particolare.

Russo restò qualche secondo in silenzio cercando una qualsiasi ragione per non mettergli le mani addosso, poi fece un sospiro ed esplose: “Porcaccia la miseria Marra, ma ci hai dato giù di grappa un’altra volta? Che cos’ è ’sta storia senza senso? Che è successo al ghebbi? Graziani ferito? Spiegati meglio, boia d’un Giuda.”

Le parole del caposquadra non fecero che ingarbugliare di più le spiegazioni sudate di Marra. La seconda versione fu ancora più confusa e sconnessa. Non erano più gli inglesi ad avere attentato a Graziani, ma un gruppo di negri bastardi che avevano buttato delle granate in mezzo alla folla. Russo gettò la spugna e si decise ad alzarsi dal letto per verificare di persona. Qualcosa di grave doveva essere successo, ma capirlo da quel bestione sarebbe stato impossibile. Si vestì in fretta, accese una sigaretta e ordinò a Marra di accompagnarlo al ghebbi

Il veggente

Prima di ogni crisi tutto era più chiaro per un momento. La patina opaca che velava gli occhi scivolava via e la realtà si manifestava in tutto il suo nitido splendore. Poteva leggere i pensieri delle persone che gli stavano attorno, capire i loro desideri, intuirne i timori. Quando la crisi era più forte del solito riusciva anche a prevedere l’immediato futuro e un paio di volte gli era capitato di parlare nel sonno con il nonno, morto quando lui ancora non era nato. Il problema era che subito dopo la chiarezza arrivava il buio delle convulsioni e con esse tutto svaniva lasciandolo prostrato per giorni. Sapeva di avere visto e capito, ma non cosa: gli rimanevano solo pezzi di un rompicapo monocolore impossibili da incastrare tra loro. Anche le visioni del futuro, se le ricordava solo nel momento in cui si avveravano. Del nonno conservava solo il ricordo di un vecchio a cavallo in abiti tradizionali oromo, ma non rammentava mezza parola di quello che gli aveva detto.

Nonno Obsa era morto combattendo gli italiani sul Monte Bellah quarant’anni prima, quando le armate di Menelik II avevano assestato un possente calcio nel didietro all’esercito dei Savoia, ricacciandolo sulla costa eritrea. All’epoca non esisteva l’aviazione e non c’erano le bombe sporche all’iprite che decenni dopo avevano spazzato strade, villaggi, guadi, accampamenti e corsi d’acqua portando le camicie nere fino ad Addis Abeba.

Era proprio dal nonno che aveva ereditato quella maledizione. Parlava con i morti nel sonno, nel momento in cui era più vulnerabile e ricettivo, forse per questo alle volte intravedeva il domani. Un morto s’insinuava nelle pieghe del suo inconscio tra sogni e incubi e non aveva ancora imparato a frenare la paura per capire a fondo il messaggio degli spiriti. Suo padre lo rassicurava: “Sei giovane, hai tempo, sostenere la presenza degli spettri anche nei sogni non è facile. Devi trovare il tuo modo, il tuo sentiero. Non è come andare a cavallo o coltivare il teff, nessuno ti può insegnare come si fa… Devi imparare da solo.”

Tamrat era steso nella capanna con un impacco di erbe dall’odore pungente sulla fronte. La crisi era stata un terremoto e l’aveva stremato, ma stavolta il risveglio non aveva cancellato i ricordi.

Tutto era iniziato con un senso di malinconia e un dolore luttuoso, poi la tristezza si era estesa a macchia d’olio divorando quello che gli stava attorno. Aveva perso conoscenza e in quegli interminabili minuti di oblio aveva incontrato il nonno. Gli si era avvicinato gattonando per terra e gli aveva sussurrato nell’orecchio di stare attento alla iena. La cosa strana era che il nonno aveva parlato in italiano. Aveva ripetuto più e più volte la stessa cosa, poi era scomparso quando aveva ripreso conoscenza.

Se ne stava lì, steso con l’impiastro che gli colava sulle palpebre e sulle guance a pensare al significato di quella visione, quando sentì del trambusto e delle urla attorno alla capanna. Sulla soglia fecero capolino due carabinieri. Armi in pugno. Il più giovane esitò un istante, poi chiese in tono perentorio: “È vero che parli italiano?”

Tamrat voleva rispondere, ma le parole gli si spensero in gola.

Il militare più anziano fece un sorriso obliquo. “Mo’ gliela faccio tornare io la voglia di parlare a ’sto babbuino.”

La suola dello scarpone lo prese in pieno petto. Sentì un dolore lancinante, come se le costole fossero implose e perse conoscenza.

Lo trascinarono fuori dalla capanna per i piedi e lo caricarono come un sacco di patate su l’Autocarretta OM36. Tenendo le persone a distanza col moschetto puntato, appiccarono il fuoco al tucul e partirono lasciandosi dietro una scia di polvere, fumo e terrore.

Lu cumplotto

La strada tra la sede della milizia coloniale e il ghebbi era ammorbata da un’atmosfera spettrale. Viaggiavano da cinque minuti e lungo il tragitto non avevano incrociato anima viva. Dalla città vecchia si alzavano sottili colonne di fumo nerastro, come si fossero accesi all’unisono molti focolai d’incendio. Il caposquadra Russo osservava quello spettacolo insolito accendendosi la seconda sigaretta della giornata accasciato sul sedile passeggero della FIAT 514 guidata da Marra, quando, all’improvviso, da una traversa spuntarono di corsa due etiopi terrorizzati. Erano a piedi nudi e avevano un aspetto malandato. Il primo lo conosceva di vista: chiedeva l’elemosina nei pressi del Teatro Italia. In quel momento, dalla stessa strada sterrata sopraggiunse un camion a tutta velocità e falciò i fuggitivi. Il mendicante restò a terra con le

gambe spezzate in preda alle urla, l’altro riuscì a fuggire infilandosi in un vicolo troppo stretto per il veicolo. Il camion era della ditta Martinetti, che assicurava il trasporto dei beni di consumo italiani dal porto di Massaua ad Addis Abeba e che, allo stesso tempo, deteneva il monopolio del cambio nero tallero/lira. Dalla cabina scese Vittorio, il figlio maggiore del titolare che, brandendo una barra di metallo arrugginito, finì il mendicante a randellate sulla testa. Li osservò passare con il viso grondante di grumi rossi. I denti schierati in un sorriso folle.

A Russo cadde la sigaretta dalla bocca e quasi rischiò di scottarsi per riprenderla e buttarla fuori dall’abitacolo. Marra si sentì in dovere di dare una spiegazione: “Ve l’avevo detto che pure li sciancati devono dà di curbascio. Qua stamu pe’ dentro a ’nu cumplotto. A proposito caposquá, ma che è esattamente ’nu cumplotto?”

Avrebbe voluto rispondergli: quello ordito dalla sciagurata che ha deciso di metterti al mondo, ma si morse la lingua, rimase in silenzio e contò a mente i minuti che lo separavano dal ghebbi.

Continuarono il tragitto in silenzio. La cappa spessa di terrore e adrenalina che opprimeva la città toglieva la voglia di parlare come un cazzotto alla bocca dello stomaco. Quando arrivarono nei pressi del cimitero italiano videro tre soldati allineare a bastonate un gruppo di giovanissimi etiopi contro il muro di un edificio. Dopo pochi attimi una raffica di Breda 30 falciò i ragazzi lasciando sul muro di mattoni una scia di sangue e buchi circolari. “Gliela stamo facendo vedé noi, caposquá.” Sussurrò tra i denti Marra, ma anche stavolta non ottenne alcuna risposta dal suo superiore.

Si infilarono tra strade sterrate e vicoli maleodoranti. L’auto schizzava fango e sollevava polvere. Marra guidava come un forsennato anche tra i carruggi e per poco non investì una bambina che camminava raso i muri. Russo incrociò il suo sguardo per un istante. Provò a sorridere, ma non ci riuscì.

Una volta giunti a destinazione, sembrava che nel cortile interno fosse passata una mandria di cavalli imbizzarriti. A terra c’erano vestiti, scarpe e oggetti vari. La pensilina della gradinata allestita per ospitare le autorità era crollata e tra le sedie capovolte, le macerie e le schegge, si allargavano grosse macchie di sangue ancora fresco. Il racconto di Marra non era stato solo frutto delle sue proverbiali alzate di gomito a base di grappa.

Alfredo Russo entrò a passo spedito nel palazzo semideserto e chiese a un

piantone notizie del federale. Gli venne indicata la sala d’aspetto dell’ufficio del viceré Graziani. In fondo alla stanza c’era un capannello formato dal federale Cortese in persona, dal capomanipolo Raffaele Verdi e da Vincenzo Ricci, un giovane camicia nera arrivato due settimane prima dall’Italia. A Ricci, piglio e pizzetto alla Italo Balbo, piaceva recitare la parte del fascista impeccabile venuto in Africa da volontario per contribuire alla costruzione del glorioso impero italiano, ma lo sapevano tutti che era scappato da Firenze quando il federale aveva scoperto che era l’amante di sua moglie.

Arrivato al capannello, Verdi gli mise una mano sulla spalla e con fare carbonaro parlò a bassa voce come in chiesa. “Alfredo, è il nostro momento. È un’occasione irripetibile. Gli occhi del Duce sono puntati su Addis Abeba e su di noi.”

Russo era perplesso. Non aveva ancora capito bene cosa fosse successo che il suo diretto superiore stava già cospirando qualcosa. Fece appello a tutte le energie che la malaria gli concedeva: “Mi scuso, ho passato gli ultimi tre giorni a letto febbricitante; se foste così gentile da spiegarmi i dettagli dell’accaduto…”

Fu Cortese in persona a rispondergli scansando bruscamente il capomanipolo: “È successo che gli abissini ci hanno fregato manco fossimo una manica di idioti e sua eccellenza Graziani è stato il più cretino di tutti: si è messo in bella mostra per facilitare loro il compito; ci mancava solo che si dipingesse un bersaglio sul petto. Durante la cerimonia di distribuzione dei talleri ai pezzenti, hanno lanciato bombe a mano sul palco e quell’imbecille invece di buttarsi a terra e ripararsi si è sporto perché pensava fossero fuochi d’artificio. Adesso è in ospedale a farsi ricucire ché c’ha più buchi del formaggio. La cosa positiva in tutto ’sto casino è che adesso abbiamo carta bianca. Mussolini in persona ci ha ordinato il repulisti: possiamo fare come ci pare. Ma a me non basta, io voglio scovare i colpevoli. Li dobbiamo stanare prima dei carabinieri e dell’esercito. A Roma devono capirla una volta per tutte che sono le camicie nere a fare la differenza, a Roma a Tripoli e pure ad Addis Abeba.”

“Cioè?”

“Russo, cos’è? La malaria ti ha rammollito? Qua non si tratta solo di spezzare le reni a chiunque pensi di poter fregare gli italiani, qua dobbiamo sventare il complotto, arrestare i colpevoli e impiccarli in pubblica piazza. E lo dobbiamo fare noi. Per questo ci servi tu. Tu sei il camerata con più

esperienza, hai già sistemato quei quattro beduini seguaci di Omar al- Mukhtār in Libia. Ti ho messo assieme una squadra speciale. Pochissimi uomini scelti, un manipolo agile e ardito. Mentre il capitano Sartori e Colonna Molinero fanno il lavoro pesante e si divertono col curbascio e la baionetta voi dovrete fare il lavoro di fino, andare a scovare indovini, stregoni, sciamani o quel cavolo che sono della città vecchia e scucire loro ogni informazione possibile, fino a quando non arriverete ai colpevoli. Se qualcuno ha tramato qualcosa in questa città maledetta, di sicuro uno di quei ciarlatani e santoni sa qualcosa. Camerata Russo, questa è una missione d’importanza f-o-n-d-a-m-e-n-t-a-l-e, ci siamo intesi? Se avrai successo, e avrai successo, sarà il Duce in persona a ringraziarti. E non preoccuparti della concorrenza. I carabinieri stanno seguendo altre piste e ho mandato quel cretino di Vicini a dare la caccia a un gruppetto di ribelli senza importanza. Manco sappiamo se esistono davvero. Sono solo fantasmi nella testa di qualcuno. Tornerà con un pugno di mosche al solito e come al solito darà la colpa alla sfortuna.”

Alfredo Russo non capiva. Non era meglio se gli avessero affiancato il manipolo del seniore Emilio Vicini? Era vero che era un cretino, ma… Lasciò perdere. Non riusciva a scuotersi dallo stato di spossatezza che lo ammantava come una coperta bagnata, ma si fece forza. “Ci servirà un interprete affidabile. Se dobbiamo interrogare tutti ’sti balordi, sarà indispensabile.”

Verdi gli fece segno di seguirlo con aria sorniona. “E secondo te mentre te ne stavi a letto convalescente noi siamo stati qui con le mani in mano? L’interprete è bello che pronto che ti aspetta. Ce lo siamo fatti consegnare a domicilio dai carabinieri e l’abbiamo impacchettato nello stanzino delle scope.”

Russo seguì sconsolato il capomanipolo fino a una porta nel sottoscala. Quando Verdi aprì, rimase a bocca aperta.

Gli attrezzi del mestiere

Tamrat era stato svegliato da un forte scossone; dovevano avere preso una buca bella grande. Non provava né paura né angoscia, solo un’inspiegabile malinconica rassegnazione.

La camionetta si fermò. Il carabiniere che lo aveva preso a calci gli ordinò

di scendere. Tamrat obbedì anche se riusciva a tenersi in piedi a stento. Una camicia nera gli diede una spinta e lo fece ruzzolare a terra. Lo sollevò per un orecchio e lo trascinò all’interno di un palazzo pieno di soldati, carabinieri e camicie nere: di etiopi e àscari neanche l’ombra. Lo chiusero al buio in uno sgabuzzino.

Quando la porta si spalancò si era quasi addormentato. Tre camicie nere lo squadravano.

“Ma è un bambino. Che me ne faccio di un bambino?”

Il capomanipolo Verdi diede a Russo una pacca sulla spalla sogghignando. “È stata un’idea mia: geniale. Dei negri adulti in questo momento non ci possiamo fidare. Quei cani di attentatori dovevano avere una talpa nel palazzo. Ho parlato col direttore della scuola italiana per indigeni e mi sono fatto consigliare. Questo qua è mezzo scemo, soffre di epilessia, ma parla l’italiano come fosse nato a Roma e non in un cesso di tucul; oltre all’amarico, parla il galla, il tigrino e l’arabo.”

A Russo sembrava tutto uno stupido scherzo. “Perdonatemi, ma non sarebbe meglio un àscaro che parli amarico? Quanti anni ha questo qui? Otto, nove? Si regge in piedi a malapena. Dove volete che lo porti uno così?”

“Camerata, il ragazzino ha dodici anni; sembra più piccolo perché è scimunito e malato. Tra àscari e locali c’è troppa animosità e poi a trovarne uno che parla bene l’amarico ci metteremmo una settimana. Questo è perfetto: piccolo, tascabile, non oppone resistenza, non giudica, non guarda, non trama, in poche parole: non capisce un fico secco, traduce e basta.” Russo avrebbe voluto obiettare, ma lo sguardo di Verdi e la stanchezza che si sentiva addosso lo fecero desistere e si limitò a chiedere un chiarimento: “E chi altro avete pensato di affiancarmi in questa operazione. Chi saranno gli arditissimi?”

“Marra e Ricci.”

Il bestione e il Casanova de noantri. Andiamo bene. Sospirò, l’attentato doveva aver fatto perdere la bussola, le staffe e la trebisonda in una volta sola a tutti i caporioni. C’era poco da fare o da dire. Sperò solo che Dio gliela mandasse buona e che prima o poi il comando sarebbe rinsavito. Nel frattempo, avrebbe creduto, obbedito e combattuto. Ordinò a Marra di caricare il ragazzino sulla FIAT e chiese a Ricci di preparare i ferri del mestiere: per fare parlare i babbuini ci vogliono gli attrezzi giusti.

La vera catastrofe

Marra guidava a scatti. Sembrava prendere di proposito ogni buca scavata dalla stagione delle piogge sulle strade di Addis Abeba. Tentò di smorzare le imprecazioni dei passeggeri con una questione di ordine organizzativo. “Caposquá, ma sicuro che questo lo parla l’italiano? A me mi pare che è muto: mancu ’na parola ave detto.”

Russo si voltò verso il sedile posteriore. Tamrat si era di nuovo assopito con la testa che ondeggiava. Gli scosse la spalla, ma l’unico effetto che ottenne fu quello di farlo appoggiare sulla spalla di Ricci che si scansò come se un piccione gli avesse cagato addosso. Tamrat cadde in avanti e si svegliò di soprassalto. Appena aprì gli occhi rivide in un lampo il sogno appena fatto.

Si trovava in un luogo deserto e desolato, un’unica capanna immersa in una nuvola di nebbia e polvere e una iena dal muso insanguinato che ci girava attorno. Sapeva di dover scegliere tra attaccare ed essere attaccato. Si era lanciato sulla bestia mordendola a una zampa. Sentiva il sapore ferrigno del sangue sulla lingua e sotto i denti.

Mise a fuoco l’abitacolo della FIAT. Attorno a lui non c’erano iene, ma animali molto più pericolosi e imprevedibili: tre italiani in camicia nera. Quello seduto di fianco gli sollevò il mento con il curbascio: “O’ piccinino, qui ti tocca di parlare, sa’? Perché se te ’un parli, vuol dire che non ci servi proprio a nulla e quindi ti tocca di fa’ ’na brutta fine. Ha’ ’apito?”

Tamrat fissò Ricci negli occhi con un rigurgito di orgoglio. “Per parlare bisogna avere qualcosa da dire. Io non ho niente da dirvi.”

Quelle parole vennero accolte da un attimo di stupore e dalla risata di Ricci: “Senti costì…. Noi si credeva d’averci qui ’na scimmietta, e invece ci s’ha un pappagallo, ci s’ha. Però sta’ attento che i pappagalli ripetono solo quello che gli dice il padrone: e i padroni tuoi siamo noi tre.”

Il tono di Russo era freddo. “Il padrone qua sono io; e tu Ricci fai poco il pagliaccio che la situazione è quella che è.”

Marra frenò brusco e con il mento storto fece un cenno verso sinistra. “Stamu cercando quelli comm’ a isso, o mi sbaglio caposquá?”

Oltre la strada, in uno spiazzo vuoto, c’era un vecchio seduto a terra con un krar malandato tra le gambe. Cantava con un filo di voce accompagnato dalle due corde superstiti dello strumento.

Russo scese dall’auto, strappò di mano il curbascio a Ricci e ordinò a Tamrat di seguirlo.

Il vecchio era davvero male in arnese; il viso era gonfio e una lunga ferita sulla fronte era ancora aperta: sembrava in trance. Il caposquadra chiese a Tamrat di tradurre le parole del canto. “Quando passa il signore col bastone, il saggio fa un grande inchino e zitto zitto scorreggia, poi ripassa, un altro inchino e sputa a terra.”

“Digli di fare poco lo spiritoso, se non vuole che finisca il lavoro cominciato da chi l’ha ridotto così.”

“Morire non è una catastrofe, andare a dormire a stomaco vuoto è una catastrofe.”

Russo strappò lo strumento di mano al vecchio, lo buttò nella polvere e lo sfasciò sotto lo scarpone. Era certo che non avrebbe condotto a nulla, ma doveva credere. “Chiedigli se girano voci su chi ha combinato il casino del ghebbi. E digli che se mi fa perdere la pazienza glielo insegno io che cos’è una catastrofe.”

Il vecchio fissò Russo prima di rispondere. Quando lo fece sfoderò uno sguardo pieno di disgusto. Tamrat sembrava scosso dalle parole del vecchio.

“Be’, che ha detto?”

“Dice che l’aquila attacca sempre sottovento la sua preda e che non è ingorda e stupida come la iena: non la divora mai allo scoperto.”

Russo sferzò col curbascio il volto del vecchio e fece segno a Tamrat di seguirlo verso la vettura. Prima di seguire il caposquadra, Tamrat fece in tempo a sentire il vecchio canticchiare e biascicare tra sé: “Pure le iene lo sanno: morire non è una catastrofe, andare a dormire a stomaco vuoto è una catastrofe.

Piano B

In macchina Russo sembrava distratto. Fu Marra a provare a rompere il silenzio: “Bravo caposquá! Gliel’avete fatta vedere voi all’abissino. Allora? Vi ha detto qualcosa d’interessante?”

Russo continuava a fissare un punto indistinto all’orizzonte.

La voce di Ricci era stridula come un’unghia sulla lavagna. “O Russo, guarda che siamo ad Addis Abeba, mica a Fatima: ’un si vede mica la

Madonnina da costì.”
“Il vecchio era fuori di testa. Stiamo perdendo tempo. Questa missione

non ha senso. La città è già stata messa a ferro e fuoco. I colpevoli non saranno di certo rimasti ad aspettare noi e chi sapeva qualcosa o è stato spremuto a dovere o si è nascosto come un ratto. La città vecchia è l’ultimo posto dove cercare.”

Ricci era perplesso. “O Russo, ma che ti sei rincitrullito? Ce l’ha ordinato Cortese in persona. E quando il federale ordina, noi camicie nere si esegue senza discorsi.”

“Parli del federale o della moglie del federale?”

Il toscano abbassò lo sguardo e non replicò al caposquadra, che si rivolse, tanto per non lasciare spazio a un imbarazzante silenzio, a Marra: “E tu che dici? Che ne pensi?”

“Caposquá, per me quello che dicite voi è matematica. Ma pecché, che vulite fà?”

Ricci cercò di riprendersi dal colpo basso infierendo sul bestione: “E da quando tu ci sai fa’ con la matematica? Non sai manco fare due più due, bischero.”

“Contare, sacciu contare; e statti attento che col manganello in mano pure a mille arrivo.”

Russo riprese il filo ignorando le schermaglie tra i due squadristi: “Restare in città è inutile; è come cercare nella credenza il ladro che ha rubato il barattolo di lardo. Scommetto la diaria che chi ha combinato il casino del ghebbi si è andato a rintanare in qualche buco di montagna qua attorno. È il modo vigliacco in cui agiscono i ribelli. Colpiscono e si ritirano, non aspettano lo scontro diretto. Era così anche in Cirenaica, ma allora abbiamo saputo reagire a modo. Gli abbiamo stanati tutti: uomini, donne, bambini e pure le capre.”

Ricci non era convinto. “Hai voglia, ma noi tre da soli con ’sto cittino come si fa a stanarli dalle montagne?”

“Andiamo in avanscoperta a fare qualche domanda e poi si vede.” Era certo che non sarebbe servito a nulla, ma doveva obbedire.

“E da dove principiamo?”

“Dal Monte Entoto. Da lì si domina tutta Addis Abeba. I boschi di eucalipti offrono riparo e nascondiglio a chi cerca la fuga o vuole coprirsi la ritirata. Ci sono i monasteri e un bel po’ di pellegrini che vanno per quei

sentieri e che possono portare vettovagliamenti senza dare nell’occhio. Andiamo lassù a vedere che aria tira.”

“Un’aria che ci si ghiacciano anche le mutande, ve lo dico io. E quando si torna giù ci tocca pure la ramanzina di Cortese.”

Anche Marra sembrava poco convinto dell’aritmetica di Russo: “Coposcuá, non per dire, ma qua si sta facendo scuro, nun è meglio aspittá a dimmatina? Dove la passiamo la notte pe’ sopra alla muntagna? Ricci tiene ragione ca face friddo.”

Il tono di Russo non ammetteva repliche: “Ve lo volete mettere in testa che noi qua siamo i padroni? L’Etiopia è italiana e noi siamo camicie nere: non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per prenderci quello che ci serve. Siete due pappamolla. Adesso si va sul Monte Entoto, dovessimo arrivarci strisciando sui gomiti.”

Marra mise in moto e si mise a cercare tutte le buche che ancora non aveva preso dirigendosi verso nord. Sballottato sul sedile posteriore Tamrat ripensava alle parole del vecchio cantastorie. Quelle tre camicie nere non si muovevano sottovento e sul Monte Entoto c’erano predatori ben più temibili della iena italiana. La monotonia del viaggio e la stanchezza ebbero il sopravvento. Il sonno lo colse dopo poche curve.

Entoto

Il sogno si insinuò come un serpente ramoscello. Di nuovo la stessa iena, la stessa capanna, ma stavolta c’erano dei cuccioli rannicchiati in disparte che guardavano la bestia con terrore. Poco a poco la capanna svanì inghiottita da una nebbia fitta e silenziosa. Tamrat sgranò gli occhi nel tentativo di distinguere qualcosa in quel vapore ovattato. Una voce lo sorprese alle spalle: “Che ci fai tu qui?” Era una bambina come lui a parlargli con voce calma e ferma nella lingua degli italiani. Era vestita in modo strano. Non l’aveva mai vista prima, ma gli era in qualche modo familiare. Parlarono della foschia che li avvolgeva, dei morti che non muoiono mai davvero e della strana condizione che li accomunava: essere condannati a vedere ciò che tutti gli altri non possono o non vogliono vedere.

Tamrat fu svegliato dalle imprecazioni di Marra e dal freddo pungente. Gli sportelli erano aperti e il vento congelava l’abitacolo. La notte era calata, la

mulattiera era illuminata dalla luce della luna. La Via Lattea pulsava di viola. Tamrat si affacciò. Da Addis Abeba non si vedevano così tante stelle. Pensò al nonno e al fatto che fosse morto su una montagna come quella. Le sue ossa trovavano riparo ogni notte da quarant’anni sotto quella trapunta di astri. Si sentì d’improvviso meno solo in balia di quello strano destino che lo aveva trascinato sull’altura.

Gli italiani erano accovacciati a terra vicino all’auto. Marra con una torcia in mano imprecava più di tutti: “Mannaggia a ’stu cesso de macchina, ’stu cesso de mulattiera e ’stu cesso di paese. Manco la mano della Vergine Maria la face ripartire più.”

Russo cercò di essere pragmatico, nonostante tutto. “Ci toccherà proseguire a piedi. Ricci, prendi il Carcano, baionetta innestata; io e Marra prendiamo le pistole. Ricci portati pure lo zaino con l’acqua e le munizioni. Marra, tu ti carichi il bambino.”

Marra non era entusiasta della suddivisione dei compiti. “Ma pecché? Lo scimunito nun pote camminare da solo?”

“No Marra, lo scimunito nun pote. Non si regge in piedi e dobbiamo trovare un riparo in fretta, se non vogliamo congelare.”

Si misero in marcia di buona lena sulla mulattiera fino ad arrivare a un trivio. Presero il sentiero più ripido che si infilava in un fitto bosco di eucalipti. Marra cominciò a cantare: “All’Armi, all’armi, all’armi siam fascisti, terror dei comunisti…”

Russo lo fermò alzando una mano e con tanta voglia di tirargli un gran calcio nel sedere: “Che ti canti? Non è che lo deve sapere tutta l’Africa Orientale che stiamo arrivando.”

“Caposquá era pe’ fa’ coraggio alla truppa. Quannu si marcia, si canta e allora si marcia meglio.”

“Ma quale truppa? Chiudi il becco, o giuro che ti faccio trasferire in… Ah, stai zitto, va’.” Russo scosse la testa. Dove lo avrebbe fatto trasferire? Peggio di così, non era possibile.

Tamrat era rannicchiato sulla schiena di Marra, l’odore acre del sudore gli pizzicava le narici. Com’era possibile che animali del genere avessero conquistato il regno del Negus.

Dopo un’ora di marcia accidentata attraverso il bosco, intravidero alcune luci fioche oltre gli alberi. Russo mandò Ricci in avanscoperta. Dopo una decina di minuti, il fiorentino tornò ostentando un sorriso obliquo. I denti

scintillavano alla luce lunare. “Più avanti c’è una radura con una chiesa piccina. Ci so’ un bel po’ di persone raccolte lì attorno che hanno acceso dei fuochi. Non sono uscito allo scoperto, ma credo siano per lo più vecchi, donne e bambini. Dev’esse’ gente scappata dalla città. Il caposquadra ci ha visto giusto.”

Il manipolo di arditi si diresse verso i falò di buon passo. Quando uscirono allo scoperto qualcuno corse verso il bosco dall’altro lato, ma la maggior parte delle persone attorno ai fuochi fu colta alla sprovvista e rimase immobile. Russo si diresse senza indugio verso la chiesa dalla pianta circolare. Curbascio alla mano si fece largo tra la gente fino alla porta.

L’interno del tempio era affollato di donne e bambini. Mano sulla rivoltella si guardò attorno. Due bambini accanto alla madre vicino all’altare erano troppo chiari di pelle per essere abissini. Bastardi figli della peggior malattia delle colonie: il meticciato. Si voltò verso Marra: “Sbatti fuori un po’ di ’sti pezzenti che ci sistemiamo per la notte.”

Il bestione diede una dimostrazione esemplare della perizia con cui maneggiava il manganello. In meno di un minuto la chiesetta si era mezza svuotata e i quattro si sedettero su una stuoia. Russo disse a Tamrat di trovare il prete. Dopo poco il ragazzino si presentò con un vecchio dalla barba bianca. Russo passò subito al sodo: “Chiedigli se sa qualcosa di quello che è successo al ghebbi.”

Il vecchio parlava con un filo di voce.
“Dice che non sa niente.”
Ovvio, e cosa deve sapere? Russo non sapeva se fosse la malaria o la

ragione a parlare, in ogni caso aveva deciso di non ascoltare da tempo. “Ah, non sa niente? E tutta questa gente che sta qua accampata? È venuta a fare una scampagnata?”

“Dice che sono venuti per pregare.”

“Digli che l’unica cosa per cui devono pregare è che troviamo in fretta chi ha combinato il casino giù in città… Digli anche di portarci qualcosa da mangiare mentre pensa a qualcosa d’interessante da raccontarci… Sennò lo faccio parlare col camerata curbascio.”

Mangiarono due grandi enjera di carne stufata e tirarono a sorte per il turno di guardia. Toccò a Ricci che sacramentò.

Russo si stese supino sperando di abbandonarsi presto a un sonno profondo e senza sogni. Quando si addormentò l’ultima immagine che gli

vorticò nella mente fu quella dei due bambini bastardi.
Tamrat si rannicchiò in un angolo e chiuse gli occhi sperando che il nonno

venisse a portargli consiglio: qualcosa di terribile stava per accadere.

Yekatit 13

Ancora la stessa capanna, la stessa landa desolata, la stessa iena, ma stavolta, oltre alla donna, c’era un vecchio dallo sguardo affilato come una sciabola. Lo teneva sotto tiro mimando con il braccio teso un fucile pronto a fare fuoco.

Russo fu svegliato da Ricci poco dopo mezzanotte. Sembrava atterrito. “Camerata, non so com’è successo… Ma mi sono assopito e quando mi sono risvegliato fori ’un c’era punto gente… non c’era più nessuno…”

EccoCi mancava pure questo. “Come nessuno? Un centinaio di persone non scompaiono così di notte nel bosco.”

Marra, nel frattempo, era stato svegliato dallo scambio tra i due. La sua faccia obliqua a lume di candela era ancora più sghemba. “Ch’è statu? Amo scuperto chi ha fatto lu cumplotto?”

Russo si passò una mano tra i capelli. “È successo che questo imbecille invece di fare la guardia si è addormentato.”

Il caposquadra si avvicinò a una finestra e guardò fuori. La radura era deserta. I fuochi si erano spenti in un cumulo di cenere e legna fumante. Russo era preoccupato, ma non voleva darlo a vedere: “Strano… Cerchiamo di mantenere la calma.”

I pochi rimasti nella chiesa se ne stavano immobili e silenziosi come statue.

Marra non sembrava affatto turbato: “Caposquá, ma di che ci dobbiamo preoccupare? Quelli si sono cacati addosso che ci hanno visto e se ne sono fuiuti, punto e basta. Non è successo proprio niente.”

Il bestione andò verso la porta con spavalderia, appena la spalancò uno sparo echeggiò dal bosco. Il metro e novanta di ciccia e muscoli di Marra si accartocciò a terra.

Russo fu scosso da una scarica di adrenalina. Impugnò la rivoltella e strisciò verso il commilitone a terra: “Ricci, col Carcano alla finestra. Muoviti.”

Scosse una gamba di Marra, che non dava segni di vita, poi si voltò a vedere cosa diamine stesse combinando Ricci.

Lo vide scavalcare il davanzale sul lato opposto. Aveva abbandonato il Carcano a terra e si era dato alla fuga portando con sé solo il pugnale della milizia. Sentì diversi spari in rapida sequenza e le grida di alcuni uomini che parlavano amarico. Era circondato.

Tamrat aveva assistito agli accadimenti di quella notte con un nodo in gola. Aveva visto Ricci addormentarsi come un sasso abbracciato al fucile. Aveva sentito la gente accampata fuori alla chiesa scappare in fretta e furia, aveva sentito la parola “arbegnuoc” passare di bocca in bocca. Aveva visto il bestione italiano diventare un ammasso di carne senza vita in mezzo secondo.

Ora Russo gli urlava qualcosa che non riusciva a capire: vedeva solo la sua bocca muoversi scomposta, ma alle orecchie non arrivava alcun suono. Sentì le convulsioni arrivare all’improvviso, inarrestabili come una mandria di cavalli imbizzarriti. Chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì c’era il nonno che lo scuoteva ordinandogli di fare attenzione a quanto stava per spiegargli.

Con gesti rapidi e sicuri nonno Obsa afferrò il Carcano, staccò la baionetta e tolse la sicura; poi caricò il colpo in canna e disse: “Appoggia la canna sul davanzale, accosta la guancia destra al legno e tieni il dito indice leggero sul grilletto. Ingoia la saliva, trattieni forte il respiro e conta fino e tre. Mira alle zampe della iena e spara; poi buttati a terra e non muoverti più.”

Russo gridava al bambino di passargli il fucile lasciato da Ricci a terra affianco a lui, ma mentre lo faceva vide Tamrat chiudere gli occhi in preda alle convulsioni. Era in trappola. Doveva prendere un ostaggio e tentare la fuga nella boscaglia alle spalle della chiesa. La donna era ancora lì appoggiata al muro con gli occhi sgranati e i bastardi stretti tra le braccia. Strisciò verso di lei, le tirò via i bambini e la sollevò di peso stringendole il braccio al collo. Lei non oppose resistenza e il pianto dei due bimbi era poco più che un sussurro nel buio. Il prete tentò di avvicinarsi, ma Russo strinse la morsa e fece un gesto con l’arma verso la carotide della prigioniera. Il vecchio si sedette sul pavimento con le mani alzate.

Uscì allo scoperto facendosi scudo con il corpo della donna. Nella mano sinistra teneva saldo il pugnale con la lama che premeva contro la gola, con la destra impugnava la Beretta tenendola puntata alla sua schiena. Si diresse verso il bosco dando le spalle alla chiesa gridando a squarciagola. “State

indietro o l’ammazzo. State indietro o l’ammazzo!”
Non urlava perché pensava che qualcuno lo ascoltasse, ma perché sperava

che quelle grida lo svegliassero dall’incubo assurdo e ridicolo che lo stava ruminando. Era certo che non se la sarebbe cavata, ma doveva combattere.

Arbegnuoc

La crisi aveva gravato Tamrat di una zavorra su muscoli e ossa, ma il ragazzino si sentiva lucido e determinato. Si guardò attorno restando steso per terra. Rannicchiati al muro c’erano una decina di persone paralizzate dal terrore, due bambini singhiozzavano, il prete era seduto a terra con le braccia sollevate. Seguì il suo sguardo fino alla figura dell’italiano che usciva stringendo davanti a sé una donna. Ricordò le parole del nonno. Il fucile era lì accanto. Staccò la baionetta, tolse la sicura e mise il colpo in canna, poi trascinò l’arma fino alla finestra. Con grande sforzo riuscì a sollevarlo e ad appoggiarlo al davanzale. Inquadrò Russo che avanzava a piccoli passi urlando a squarciagola, buttò giù quanta saliva aveva in bocca, prese un respiro e tirò il grilletto.

Russo arrancava trascinando la ragazza davanti a sé. Cercava di capire dove si trovassero gli assalitori quando sentì rimbombare lo sparo. La gamba destra gli cedette di colpo, perse l’equilibrio e per reazione strinse i pugni. Dalla Beretta partì un colpo che squarciò la schiena della donna. Il camerata caracollò sul suo corpo. Una pozza di sangue e viscere si apriva sulla veste bianca. Russo ne sentì il sapore sulla lingua e l’odore nelle narici. Una fitta devastante gli paralizzava la gamba. Era tutto come nel sogno, solo che adesso la iena era lui. All’improvviso provò un’immensa e inspiegabile pena per i figli meticci di quella madre sotto di lui. Di bastardi così ce ne potevano essere anche di suoi in giro per l’Africa. Pensò al suo paese, all’impero, al cortile in cui giocava da piccolo. Pensò che nascere italiano, crescere fascista e morire iena fosse strano e misero. Un giovane uomo dai capelli ramati uscì dalla boscaglia imbracciando il fucile. Russo chiuse gli occhi e affondando il viso nel ventre inzaccherato e senza vita della donna cominciò a ridere: “È solo un brutto sogno… È solo un sogno… È solo…”

Tamrat si era rannicchiato sotto la finestra in attesa. Era stremato, ma aveva fatto quello che il nonno gli aveva spiegato, quello che sapeva era

giusto fare. Si sentiva a cavallo di una breccia. Tagliato a metà tra il mondo reale e quello dei sogni, con un orecchio teso alla voce dei vivi e l’altro a quella degli spiriti. Non sapeva se sarebbe uscito tutto intero da quella chiesa, non sapeva nemmeno se tutto ciò stava accadendo davvero o se fosse ancora una volta solo una visione. Era certo solo di una cosa e quella cosa era impossibile. Il cadavere zuppo di sangue della donna si era alzato a scatti da terra togliendosi di dosso il corpo dell’italiano e lo aveva guardato con devastante tenerezza.

Il giorno yekatit 13, Tamrat era diventato un arbegnuoc e aveva smesso di vedere i morti solo in sogno.

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