Vinka Kitarović, il reading

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Vinka Kitarović, nomi di battaglia: «Lina», «Vera»

Era la primavera del 1941. Splendide giornate serene, calde di sole. Frequentavo il ginnasio, ero felice, presto avrei compiuto 15 anni. Avevo i miei amici, avevo la bellezza della mia città, Sibenik; avevo la mia famiglia, l’amore dei miei genitori.

Il babbo è stato il mio primo grande amico. Da piccola, sulle sue ginocchia, lo ascoltavo raccontare le storie del nostro paese – la Jugoslavia – una terra travagliata, sottomessa da nazioni più forti, mai doma. 

Aspettavo la fine dell’anno scolastico per godere il mio mare Adriatico, nuotando e veleggiando tra le isole con gli amici. Ma la prima domenica d’aprile, durante la messa nella cattedrale di San Giacomo, alla quale noi studenti eravamo obbligati ad assistere, il vescovo interruppe la preghiera e voltandosi verso di noi disse: stamane all’alba gli aerei tedeschi hanno bombardato Belgrado, si temono migliaia di morti.

Incredula, senza capire cosa significasse la guerra, tornai a casa. I genitori erano silenziosi e preoccupati: mio fratello Ivo lavorava a Smeredevo, la città industriale vicina a Belgrado. Man mano che le ore passavano seppi che la Jugoslavia veniva occupata dalle truppe tedesche e italiane. Si parlava di violenze, di morti.

La mia città, Sibenik, è un porto militare. Arrivarono gli aerei tedeschi, gli Stukas, a bombardare e mitragliare le navi da guerra.

Trascorsero due giorni di caos: senza governo, senza esercito, la gente aspettava. Poi alla sera, camion zeppi di soldati: erano italiani. Il giorno dopo fu emanato il coprifuoco: dal tramonto all’alba, vietato uscire di casa. 

A seguire, arrivò il razionamento.

I viveri scarseggiavano, si conobbe la fame, il mercato nero. Le famiglie modeste, come la nostra, finiti i pochi risparmi, vendevano tutto il possibile per sfamarsi. 

Una mattina sbarcarono le camicie nere, una masnada di energumeni con le maniche rimboccate. In una mano stringevano il manganello, nell’altra una bottiglia.

Marciavano verso il centro città cantando a squarciagola. Lungo il percorso, chi non salutava veniva picchiato e obbligato ad ingurgitare il contenuto delle bottiglie. Spaccavano le vetrine e le insegne dei negozi scritte coi caratteri della nostra lingua. Noi giovani riuscivamo a sottrarci fuggendo, ma gli anziani no.

Poi vennero nelle scuole.

Pretesero che studiassimo solo la lingua italiana. Pochi la conoscevano.

Ci fu chi bruciò i testi obbligatori, rischiando rappresaglia.

Ci furono riunioni clandestine e imparammo il significato di fascismo e nazismo. 

***

Mio fratello Ivo tornò a casa percorrendo a piedi l’enorme distanza da Belgrado a Sebenico. Restò per poco, sparì, era diventato partigiano: si andava formando il nostro esercito di liberazione.

Io, come tanti altri, mi iscrissi a SKOJ, l’unione della gioventù comunista jugoslava.

Una sera dell’ottobre 1942, dopo il coprifuoco, sentimmo bussare alla porta. Era la polizia che cercava me, per interrogarmi. I miei genitori imploravano in lacrime: è una bambina, ha solo sedici anni, perché? Nulla da fare. In caserma incontrai altre dieci compagne di classe. Pare che nella casa di una avessero trovato una lista coi nostri nomi.

L’interrogatorio non dette alla polizia italiana i risultati che sperava.

Seguirono giorni tetri, in prigione. I genitori, li vedemmo solo il giorno prima della nostra deportazione in Italia.

Al prezzo di diversi ceffoni, sbirciando dalle sbarre del cellulare che ci conduceva al porto, vidi la riva piena di gente, tenuta a bada dai soldati con i fucili spianati. Avevano saputo ed erano venuti a rincuorarci.

Circondate dai poliziotti, ci fecero entrare nella stiva della nave. Poi rotta su Trieste.

Arrivate in Italia ci separarono: quattro a Roma, quattro a Milano e tre a Bologna. Io fui destinata a Bologna.

A notte arrivammo in città e ci consegnarono ad una donna. Eravamo in via della Viola, a Borga Panigale, nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate, insieme a prostitute, minorati psichici, epilettici.

I titolari erano la famiglia Piazzi. I figli, bravi fascisti. Il padre Angelo era diverso. Trovammo in lui molta comprensione e capimmo che, forse, c’era differenza tra un italiano e un fascista.

Nei lunghi mesi del 1943 scoprimmo che anche tra le guardiane c’era differenza.

Un giorno una di loro si dichiarò antifascista e disse di poterci mettere in contatto con altri ribelli, se riuscivamo a fuggire.

Il 5 ottobre 1943 ci fu un bombardamento nella nostra zona. Fu colpita la centrale elettrica confinante con l’istituto. Fumo, polvere, cancelli scardinati, urla, terrore.

Cogliemmo l’occasione. Correndo intravidi il vecchio Angelo Piazzi, che senza dubbio capì e ci salutò con la mano.

***

Fummo accompagnate in una casa di contadini a Zola Predosa. 

Il giorno dopo ci trasferimmo in montagna, a Monte San Pietro. Era l’inizio del movimento partigiano.

C’erano alcuni prigionieri alleati, fuggiti, accolti dai contadini. Io portavo loro i pasti, ma un giorno, mentre aspettavo che finissero il pranzo, mi sentii un fucile nella schiena: erano militi repubblichini. Non so come, con il mio italiano imperfetto, raccontai che eravamo profughe siciliane, fuggite davanti all’avanzata alleata, senza documenti. Meraviglia! Mi credettero, ordinandoci di presentarci in caserma il giorno dopo: naturalmente dobbiamo ancora andarci.

I prigionieri, sentendo le voci, tentarono di fuggire mentre i militi corsero dietro loro e noi due tornammo dai compagni raccontando il fatto. Capirono così di essere stati traditi. 

Fu deciso di sciogliere il gruppo, ognuno doveva tornare al suo luogo di origine.

Già. Ma quale era il nostro luogo di origine?

Ricordo la camminata notturna, per sentieri sconosciuti, evitando i luoghi abitati. Al mattino eravamo a Zola Predosa.

Riconobbi la casa, bussai, ci accolsero e avvisarono i compagni.

L’odio che provavo per gli italiani stava scomparendo. Nelle persone incontrate, dopo la fuga, riconobbi gli stessi sentimenti della mia gente e mi sentii tra amici.

Ci trasferirono a Bologna in via Crociali 4 presso la famiglia Masi dove conobbi i figli: Giacomino, Vincenzo e Gianni, la sorella Lina e la madre. 

Imparai a parlare italiano e la bicicletta divenne la mia compagna fedele. Sul manubrio, una sporta e dentro, coperti da stracci, armi, munizioni, ordini, materiali di propaganda.

Mi accompagnavo con un giovane, che poi seppi essere Ermanno Galeotti, primo partigiano caduto, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Facevamo la ricognizione degli obiettivi strategici, pedinamenti di gerarchi fascisti, qualche trasporto di armi, le poche che allora possedevamo. Fingevamo di essere una coppia ed eravamo tanto giovani da non suscitare sospetti.

Mi chiamai Lina, staffetta della 7a GAP.

Ricordo la pesante bomba destinata a Ferrara per un atto di sabotaggio. Faticavo a trasportarla, correndo verso il treno, e un soldato tedesco insistette ad aiutarmi. A bordo, incappammo in un controllo di polizia, ed io passai indisturbata perché ero con lui.

Fu gentile, mi accompagnò nello scompartimento e mi salutò, ignaro di cosa avesse trasportato.

Lasciata la casa dei Masi, abitai in un appartamento al pianterreno della Cirenaica, vuoto perché la famiglia era sfollata. La finestra con le inferriate e i vetri aperti serviva all’occorrenza per prelevare armi e bombe, o per depositarle ad azione compiuta.

Rimasi a Bologna fino alla seconda metà del giugno 44, quando “Luigi” (Alcide Leonardi), nostro comandante di Piazza, mi disse che ero ricercata dai fascisti: dovevo lasciare la città. La sera, prima della partenza, salutai i miei compagni in casa di “Paolo” (Gianni Martini) in via del Pratello.

***

Andai a Modena. Mi presentarono a “Gino” (Italo Scalambra) della 65a Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” e divenni la staffetta del comando. Presi il nome Vera. Piano piano imparai a conoscere la città e i paesi che visitavo in sella alla mia bicicletta.

Ricordo le donne dei casolari contadini che mi accoglievano. Erano madri, sorelle, spose dei partigiani, spesso staffette. Ho scordato i loro nomi, ma non il loro coraggio e la dedizione, convinte che la Resistenza non potesse fare a meno di loro.

Man mano che passavano i giorni diventava sempre più difficile lavorare in città: posti di blocco, rastrellamenti. Io fui fermata parecchie volte e me la cavai anche senza documenti. Spesso mi facevo passare per una donnina allegra, senza fissa dimora. 

Verso la fine dell’anno 1944 passai al CUMER. Il mio compito era l’individuazione dei mezzi corazzati, postazioni dei tedeschi, trasmissione degli ordini, accompagnamento degli inviati alleati paracadutati assieme ai lanci, incontro con i compagni di altre città da accompagnare ai recapiti clandestini del comando.

Per tutti ricordo Sante Vincenzi, ucciso il giorno prima della Liberazione di Bologna.

I primi mesi del 1945 furono pieni di ansie, di attesa degli alleati che non si muovevano. Furono mesi di continui attacchi partigiani alle postazioni dei tedeschi e dei fascisti. Molti nostri compagni persero la vita. 

Ricordo Modena il 19 aprile. Deserta. Qualche soldato tedesco e qualche repubblichino da snidare. Il 22 aprile l’arrivo degli alleati in una città già liberata.

È finita la guerra. Pace. La gioia della gente scesa per le strade.

Io avevo appena compiuto 19 anni.

Stralci tratti dalla rivista dell’ANPI, “Resistenza”, Anno VI – Numero 5 – Dicembre 2008 Pagine 24/25/26/27…

Musiche Buthan Clan, voce di Wu Ming2

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