RIC vuole farvi un regalo: un racconto ambientato a Massaua nel 1931 firmato da Guglielmo Pispisa (del clan : Kai Z
en : ) . Una commedia sexy all’italiana in narrativa ancora non si era mai vista, ma non disperate ha un cuore di tenebra grande così. Italian bravi gente, buon Natale.
***
Il tenente Lorusso fissava lo sguardo spiritato nello specchio del bagno. Il rado ciuffo, che nei momenti di forma migliore gli rendeva meno avvilente la calvizie e in quelli di più ardito ottimismo fascista lo convinceva di avere ancora i capelli, stavolta si ergeva arruffato e triste sulla sommità del cranio. Si asciugò entrambe le mani con cura sul cotone rigato della canottiera tesa sul ventre gonfio, poi avvicinò il volto alla propria immagine riflessa. Uno schiocco risuonò come una scudisciata rimbalzando sull’intonaco delle quattro pareti raccolte della stanza. La florida guancia destra gli si tinse dell’impronta scarlatta delle dita. “Buon Natale minchione.” Il sibilo della voce lasciò subito posto a un altro schiocco. Stavolta ad arrossarsi fu la guancia sinistra. “Bestia, coglione, bestia, più bestia ancora di quel negro. Maledetto lui e maledetto me, chi cazzo mi ha portato, chi?!” Il tenente Vincenzo Lorusso, vicecomandante della guarnigione XXX di Massaua, decorato veterano della Somalia si stava prendendo a schiaffi nel bagno del suo alloggio. E allo stesso tempo rideva. Una smorfia di dolore e scherno gli stirava i lineamenti, rideva quasi soffocando, come allo stremo delle forze, gli occhi sempre più iniettati di sangue, il viso purpureo per la pressione e le cinque dita che si succedevano senza sosta, intervallate solo dagli insulti e dai ricordi.
Stava così bene appena poche settimane prima, cosa poteva volere di più? Una mattina all’alba della metà di settembre, però, si era svegliato con una sensazione di disagio, che sulle prime aveva attribuito all’approssimarsi del monsone o all’abitudine di Dafina di poggiargli la testa sulla pancia mentre dormiva, il che, soprattutto quando la sera precedente aveva esagerato con lo zighinì speziato, gli faceva salire un saporaccio destinato a rimanergli in bocca per tutta la giornata. D’altronde, la posizione in cui Dafina si accucciava dormendo, così prossima al suo basso ventre, gli aveva regalato più di un risveglio piacevole. Quella volta però Dafina dormiva nella sua parte di letto. Il fastidio allo stomaco non era dovuto allo stufato, né al peso della sua piccola negra, né a un languore sessuale. Col passare dei minuti, a occhi aperti nella penombra della stanza, aveva riconosciuto quel malessere, quella presa invisibile che gli torceva lo stomaco su fino all’esofago. Si trattava di un presentimento.
Aveva provato la stessa sensazione vent’anni prima, il 23 ottobre del 1911, risvegliandosi di soprassalto dentro il sacco a pelo nel magazzino che ospitava la sua compagnia nel quartiere della Menscia; un letamaio di casette addossate le une alle altre fra gli sterrati e le palme dell’oasi di Tripoli. Il ragazzino dagli occhi svelti che li aveva condotti lì aveva assicurato che non c’era sistemazione migliore in tutta la città. Ma gli rimaneva quella sensazione di incombenza, come se qualcosa di spiacevole stesse per accadere. Prima delle sei quel qualcosa era accaduto. Cirillo, un salernitano scuro e piccolo che dormiva accanto a lui e che se non fosse stato per l’uniforme e gli occhi azzurri si sarebbe potuto scambiare per uno dei ragazzetti straccioni del luogo come quello che li aveva portati a dormire lì, si era stropicciato i lineamenti gonfi di sonno: “Tutto buono cumpa’?” “No” aveva risposto secco Lorusso. Pochi minuti dopo avevano sentito i primi spari provenire da Forte Messri, dov’era acquartierata la settima. Attaccavano. Avevano provato a venir fuori dal magazzino, ma si erano subito trovati sotto tiro: li stavano aspettando. La settima a Forte Messri, la quarta e loro stretti fra la collina di Henni e il mare, senza fortificazioni, senza protezione. In trappola. Sparavano da tutte le parti, da ogni casa. Insieme con due compagni era stato mandato incontro alla batteria da sbarco schierata a Bu Meliana, per sollecitare e guidare i rinforzi. Erano riusciti a malapena a sottrarsi al fuoco di sbarramento rimanendo però bloccati e tagliati fuori dal resto della compagnia per tutta la giornata, mentre la quarta aveva ripiegato dentro un cimitero, per poi arrendersi. Aveva trascorso ore addossato a un muretto basso, ventre a terra a mangiar polvere e sabbia mentre il tiro radente e casuale di quei maledetti beduini lo sfiorava. Ed era stata l’unica fortuna di quella giornata orrenda: rimanere lontano dai suoi compagni. Li avevano massacrati tutti là, nel cimitero. Il primo dei due giorni più brutti della sua vita.
Quando quella mattina di vent’anni dopo si era di nuovo svegliato con la stessa ansia inspiegabile in gola, il pensiero era andato a quella battaglia, al massacro di Sciara el Sciat, ma ormai era diverso, tutto era diverso. Quello era solo un brutto ricordo e lui adesso viveva come un piccolo ducetto coloniale. Era trascorso molto tempo e l’Eritrea non era la Libia. Tripoli non gli era mai piaciuta, un cacatoio, e i libici erano infidi. Massaua invece era un posto quasi civile, con un’architettura decente e gente cordiale.
Indossò lentamente l’uniforme, erano ancora le sei meno un quarto. Seduto sul letto, dopo aver calzato gli stivali, allungò la mano al sedere di Dafina, somministrandole una carezza rude. In Eritrea aveva avuto modo di apprezzare la carne soda e le virtù di resistenza al dolore delle giovani locali, compresa ovviamente la sua giovanissima sposa. L’ansia però non gli dava tregua e nemmeno pizzicare il culo di Dafina sembrava sortire alcun effetto lenitivo.
Uscì dal palazzotto a due piani che non era ancora giorno e prese a scendere lentamente verso il porto lungo un ampio viale che costeggiava la linea ferroviaria. Il Mar Rosso cominciava a barbagliare sotto i primi raggi dell’alba e c’erano già più di trenta gradi: nemmeno era arrivato in ufficio che già aveva bisogno di cambiarsi. Comincio a essere troppo vecchio per l’Africa, questa è la verità. Ma quello era solo un vezzo, non la verità. La verità era che quella vita gli piaceva e del resto lui veniva da Andria, mica dalla Val d’Aosta. Senza contare che nella sua terra d’origine era sempre stato un pezzente.
Il piantone si mise sull’attenti al suo passaggio, Lorusso lo ignorò infilando rapido le scale fino al primo piano e poi subito nella sua stanza. Dalla finestra a lato della scrivania si dominava tutto il porto. I quattro mercantili giunti il giorno precedente sciabordavano alla fonda e attendevano la sua ispezione. Lavoro da fare, tanto valeva cominciare a sbrigarlo visto che si trovava lì. Esaminò i documenti di carico: c’era la motonave Atlas, un cargo di medio tonnellaggio che trasportava frutta e forse qualcos’altro, ma lui non avrebbe approfondito perché il comandante era un dalmata suo amico, Viscovich, che aveva sempre fretta e pagava bene gli extra. E farsi gli affari propri era l’extra più richiesto, da quelle parti. Il suo ufficio aveva il compito di controllare le merci in arrivo e in partenza da Massaua per verificare che non costituissero potenziale minaccia militare per l’autorità coloniale. Un compito che in teoria doveva rientrare nelle mansioni della Capitaneria di Porto ma che da anni era stato appannaggio dell’Esercito. In effetti faceva un po’ ridere l’idea di un bersagliere a presidio di un simile incarico ma era una pacchia assoluta e Lorusso non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo, con buona pace della capitaneria. Il secondo cargo era della N.G.I., la compagnia di navigazione più importante d’Italia. Si diceva che i suoi vertici fossero intimi di Mussolini, per cui Lorusso non si sarebbe azzardato ad andare fuori dal seminato. La terza nave era della Lauro e anche lì bisognava andarci coi piedi di piombo visto che i Lauro erano legati a doppio filo ai Ciano. Il quarto però, l’Esperanza, era un piroscafo della NLT, Navigazione Libera Triestina. Questo poteva anche farlo aspettare e quando il capitano fosse comparso a chiedere lumi per il ritardo, lui si sarebbe fatto vedere indaffaratissimo, lamentando turni massacranti e carenza di personale. Il capitano avrebbe certo buttato lì una di quelle frasette “Se lei potesse avere un occhio di riguardo…” e tutto si sarebbe sistemato. Bisognava portare loro a chiederti il favore, mai il contrario, ormai era diventato bravissimo in questo. Loro chiedono io concedo. Altrimenti poteva per esempio accadere che certe casse rimanessero a tempo indefinito nei magazzini di stoccaggio o che un carico subisse l’attenzione dei piccoli ladruncoli che imperversavano sui moli. Bastava invece un piccolo sovrapprezzo per garantirsi la polizza assicurativa speciale del tenente. Prese il fascicoletto con i documenti della Esperanza e lo infilò sotto una pila di faldoni all’angolo estremo della scrivania, poi chiamò a gran voce il piantone e gli ordinò di fargli un caffè. Nell’attesa accese una Macedonia. La sensazione con la quale si era svegliato persisteva ma era meno intensa, gli sembrava stesse esaurendosi nelle volute di fumo viola che si disperdevano fuori dalla finestra.
Il piantone tornò reggendo un piccolo vassoio, che appoggiò sulla scrivania: “Tenente, è appena arrivato un cablo dal Comando di Roma…” Il foglio sottile stava ripiegato sotto la zuccheriera.
Ecco qua. Lorusso avvertì una stretta dietro lo sterno. Congedò il caporale e si sforzò di mandar giù il caffè prima di leggere il messaggio, tanto era certo che fossero cattive notizie, che senso aveva affrettare i tempi? Svuotata la tazzina accese un’altra Macedonia e lesse il cablo:
URGENTISSIMO-STOP-MOTIVO-TRASFERIMENTO-PRECEDENTE-COMANDANTE-BRANDI-DISPONESI-IN-SUA-SOSTITUZIONE-DISTACCO-IMMEDIATO-MAGGIORE CC-GIRAUDO-GIA’-IN-ARRIVO-DA-COMANDO-GENERALE-ASMARA-STOP-INVITASI-CODESTO-VICECOMANDANTE-PREDISPORRE-ACCOGLIENZA-ET-PASSAGGIO-CONSEGNE-STOP
Come volevasi dimostrare, cattive notizie. Lorusso era vicecomandante del distaccamento, secondo nella catena di comando, ma visto che il capitano Brandi, il comandante, era tornato in Italia per motivi di famiglia senza essere stato fino ad allora sostituito, di fatto il capo era lui, padrone di sé stesso come mai prima. Il comando generale di Asmara, poi, non era un problema visto che non c’era alcun ufficiale di collegamento che potesse controllare il suo operato. Anche con Brandi, che era un pezzo di pane, del resto le cose erano sempre filate lisce, e il gruzzolo extra di costanti tributi che si curava di riscuotere sul passaggio dei carichi ai quali riservava un occhio di riguardo aveva continuato a crescere senza sosta. Le durezze della caserma e i rischi dei combattimenti erano soltanto un ricordo lontano. Fino a quel momento. Ma cosa sarebbe accaduto adesso con Giraudo? Era un carabiniere, per giunta. Figurarsi, un carabiniere e un bersagliere a capo di un ufficio che dovrebbe competere alla marina. Pareva una barzelletta. Lo aveva sentito nominare, per giunta, questo Giraudo. Era stato uno degli ufficiali che più si erano distinti nella riconquista della Libia, dallo sbarco di Misurata in poi. C’era il fondato rischio che fosse troppo operativo per i suoi gusti. Si ripromise di chiedere a Malik, il suo attendente. A Misurata aveva combattuto anche lui con le truppe di ascari a sostegno di carabinieri e zaptié, aveva un’ottima memoria e una spiccata tendenza alla chiacchiera: con ogni probabilità avrebbe saputo aggiungere qualche particolare al dossier.
A metà mattinata, quando ormai l’ufficio era in piena attività, con portuali che andavano e venivano, dispacci da controllare, ispezioni da effettuare o da verbalizzare e il tenente aveva troppo da fare per perder tempo a preoccuparsi, il piantone gli portò un altro messaggio. Stavolta si trattava di un telegramma e arrivava da Bari:
MIO-AMATISSIMO-FINALMENTE-ACCOLTA-RICHIESTA-CONTRIBUTO-RICONGIUNGIMENTO-FAMILIARE-STOP-ORGANIZZO-TRASFERIMENTO-ET-RAGGIUNGOTI-STOP-SEGUE-LETTERA-STOP-FELICITÁ -STOP-LORETTA
Lorusso si abbandonò lentamente sulla sua sedia, come fosse un palloncino sempre più sgonfio, lo sguardo fisso alle ultime tre parole, che sintetizzavano tutto quanto: felicità stop Loretta.
Loretta era sua moglie, quella vera, quella italiana, che finora lo aveva aspettato a Bari, anche se più volte aveva manifestato il desiderio di seguirlo in colonia. Un desiderio che Lorusso aveva ovviamente minimizzato e messo da parte come un fascicolo di documenti di carico di un mercantile che non aveva pagato il suo personalissimo dazio. I motivi del resto non gli mancavano: l’Africa non è posto per una donna per bene, fa troppo caldo, può essere pericoloso, devi occuparti della nostra casa in Italia eccetera eccetera. Ma erano tutte scuse. L’arrivo di sua moglie significava una cosa sola per Lorusso: gli era finito lo spasso. Era sposato da più di dieci anni ormai, ma con Loretta aveva vissuto sì e no meno della metà di quel tempo, fra una pausa e l’altra dei suoi incarichi in colonia. A questa circostanza attribuiva, almeno in pubblico, il fatto di non aver avuto né voluto figli – anche se in cuor suo sapeva benissimo che il motivo era tutt’altro – e ogni giorno in silenzio benediceva quel suo ruolo che lo teneva a distanza da una donna tollerabile soltanto da lontano. Ora però ci si era messa pure la politica razziale fascista a rompergli le uova nel paniere. L’Italia coloniale agevolava il trasferimento delle donne italiane, mogli e non solo, per contrastare il madamato, l’unione fra italiani e africane con degenerazione della purezza italica e disarmonie fisiche e spirituali. Incentivi di ogni genere, anche economici, di cui Loretta aveva voluto approfittare. E lui giusto in mezzo, porcaputtana. I successivi due giorni trascorsero come un interminabile, estenuante sogno a occhi aperti. Di quei sogni nei quali ogni tuo più recondito desiderio viene frustrato con esattezza chirurgica. Negli anni si era costruito una posizione in colonia e insieme a quella una nuova vita parallela che scorreva serena: un lavoro remunerativo che svolgeva come una sine cura, qualche moderato svago mondano, l’amore senza pretese della sua concubina… Che fine avrebbe fatto tutto questo?
Le vibrazioni delle sospensioni della Fiat 508 si fecero più spiacevoli appena usciti dal centro di Massaua. I sobbalzi e la guida a scatti dell’attendente riscossero Lorusso dai suoi pensieri cupi. “Perdio Malik! Non stai guidando un autoblindo nel deserto, non farmi venire su la colazione o ti sbatto dentro per due settimane.”
“Scusi Tenente, non è deserto ma sobborghi di Massaua non molto meglio.” Il negro scalò di marcia con una grattata e si assestò su una velocità inferiore. Il naso imponente gli scendeva dritto dal tarbush calato sulla fronte e gli conferiva un aspetto fiero e dignitoso, la voce era calda, affabile. Non fosse stato negro, pensò Lorusso, si sarebbe potuto dire un bell’uomo. Di certo era una compagnia piacevole, parlava un italiano comprensibile e sapeva come muoversi in ogni situazione. Per questo il tenente lo aveva portato con sé dalla Libia, come suo attendente, permettendogli così di ritornare nel suo paese d’origine, motivo per il quale Malik lo adorava.
“Senti un po’ Malik, tu ti ricordi di un ufficiale dei carabinieri di nome Giraudo, ai tempi dello sbarco a Misurata?”
Dopo qualche secondo di concentrazione, il volto dell’ascaro si aprì in un sorriso ampio. “Sissignore. Il capitano Giraudo uomo forte e coraggioso. Grandi cose in Libia.”
“Adesso è maggiore.”
“Giusto e buono, signore. Giusto e buono. Lui è ufficiale bravo bravo. A Misurata capitano-maggiore Giraudo comandava anche compagnia di zaptié. Lo sciumbasci della compagnia si chiamava Ndulu ed era grosso figlio di mignotta, con rispetto signore, lui picchiava e puniva i muntaz tutti i giorni con piccoli motivi. Un muntaz aveva divisa macchiata da marcia di giorno prima, lui puniva con bastonata. Un muntaz ritardava a rispondere appello perché con malaria, lui rapporto e consegna di rigore. Un muntaz…”
“Capito, capito Malik. Lo sciumbasci era fissato con la disciplina.”
“Non solo fissato, signore, disciplina è cosa buona buona, lo so, ma Ndulu oltre a figlio di mignotta per disciplina era pure ladro. Se tu davi lui mezza paga giornaliera lui niente bastonate e niente punizioni. Un zaptié amico mio mi ha raccontato questo. Poi un giorno capitano-maggiore Giraudo venuto a sapere e mandato a chiamare Ndulu davanti a tutta compagnia, sequestrato soldi, strappato gradi di sciumbasci e preso a calci in sedere, con rispetto signore, per tutta camerata avanti e indietro tre volte. Poi retrocesso a muntaz e a pulire latrine. Grande uomo giusto capitano-maggiore Giraudo sì.”
Lorusso si tolse il berretto e si grattò la pelata. Ci mancava pure il carabiniere tutto d’un pezzo, ci mancava.
Arrivati a destinazione, il tenente scese con cautela dalla Fiat e si avviò al modesto caseggiato, una costruzione di fango e calce non dissimile da tutte le altre tipiche del limite periferico della città. Davanti alla porta lo aspettava un uomo sulla sessantina; capelli e barba bianchi come l’ampia camicia che gli arrivava al ginocchio, a contrastare la pelle color carbone. Aprì con una chiave pescata in mezzo a decine di altre da un grosso anello d’acciaio e lasciò entrare l’italiano. L’interno era spoglio ma spazioso: quattro camere dotate di larghe finestre e un piccolo ballatoio. Gli arredi consistevano in vecchie cassapanche, un tavolo con tre sedie e un letto a due piazze sulle cui assi un materasso a sacco dall’aspetto cimicioso stava ripiegato malamente di fronte a uno specchio fissato alla parete. Lorusso si aggirò per i locali senza una parola per qualche minuto, poi fece un cenno di assenso all’uomo, sfilando di tasca un paio di banconote.
“Ti pago due mesi in anticipo, ma quello”, indicò il materasso, “deve sparire. Ne voglio uno nuovo di zecca. E biancheria pulita. Ci siamo capiti?” L’uomo sorrise.
Di ritorno in ufficio, il piantone gli porse una busta sulla quale riconobbe la grafia aggraziata della moglie.
Mio diletto Vincenzo,
la presente precederà di pochi giorni il mio arrivo a Massaua perché, come ormai già hai appreso, la nostra richiesta di accesso al contributo statale per ricongiungimento familiare è stata vagliata e ratificata dal Ministero che ci ha concesso di usufruire dei fondi messi a disposizione per le incombenze connesse alla situazione che ci vede coinvolti. Potremo dunque destinare parte delle somme a noi riconosciute alla gestione della dimora familiare di Bari senza doverla abbandonare né liquidare, nel rispetto della tua volontà, e allo stesso tempo riunirci in colonia, in modo da trascorrere insieme un’esistenza che possa finalmente e con pieno diritto essere definita more uxorio.
Sono così eccitata e curiosa! Ti prego di predisporre ogni possibile iniziativa al fine di facilitare il mio inserimento nella buona società di Massaua, che so già vivremo intensamente e con la ritrovata serenità di una coppia vera.
Con amore
Loretta
Predisporre ogni possibile iniziativa… Assomigliava al testo del cablo giunto dal Comando di Roma: predisporre accoglienza et passaggio consegne stop. Dicevano la stessa cosa, in pratica, ma il messaggio del Comando gli sembrava possedere un briciolo di umanità in più.
Aveva sposato Loretta perché era carina e perché figlia di un maresciallo ben introdotto nel 9° Reggimento fanteria “Regina” di stanza a Trani. All’epoca sperava ancora di far carriera in Italia, ma dopo i primi anni di matrimonio la voglia gli era passata. Loretta era bella e intelligente, molto più colta di lui, e forse per queste sue qualità lo faceva sentire fuori posto, straniero in casa sua. Quando si arrabbiava gli rinfacciava persino il cognome: proprio uno che si chiama Lorusso mi dovevo prendere, Loretta Lorusso, Lor Lor, sembra il nome d’arte di una soubrette d’avanspettacolo accidenti a te! Straniero per straniero, dunque, tanto valeva stare all’estero. Ma adesso anche qui in colonia, nella sua dimensione prediletta, le cose stavano per cambiare.
Le scosse dei lombi che sbattevano contro le natiche di Dafina gli avevano infine sgombrato la mente dopo una giornata troppo lunga per i suoi gusti. La negra mugolava con la testa sotto il cuscino e il sedere in su. A Lorusso piaceva, se non altro, la disposizione di questa nuova camera da letto, con lo specchio che gli consentiva di guardarsi dall’esterno mentre soddisfaceva la sua virilità, in piedi davanti al materasso, possedendo la concubina prona ai suoi voleri; il corpo di lei, nero nudo e lucido di sudore, sormontato e vinto dal bianco del suo padrone, dal candore della pelle, dalla camicia aperta sul ventre esposto, dalle mutande lunghe al ginocchio, dai calzini che aveva deciso di non togliersi, per nulla convinto della pulizia del pavimento. Svuotato il suo ardore e accasciatosi accanto alla donna, si avvide che il mugolio di quella non accennava a rallentare. Non era estasi, con tutta evidenza. Lorusso scostò il cuscino e la luce incorniciò un volto bagnato di lacrime.
“Che ci hai, Dafi’?”
I singhiozzi spezzavano in sillabe le parole della ragazza: “Tu no-non mi a-non mi ama più!”
“Ma che dici cretina?”
“Lo ve-vedi? Tu mi chiama cretina!”
“Che c’entra ora…”
“E mi ha messa qua a aspettare tuo comodo. Ora che arriva signora, il tempo di Dafina è finito”
Il tenente Lorusso si massaggiò gli occhi e le tempie con i palmi aperti: “Dafina, benedetta ragazza, chi ti ha messo in testa certe idee? Devi solo portare pazienza, vedrai che a poco a poco tutto si sistema. Qua non ti mancherà niente e se ti manca qualcosa basta che me lo fai sapere e io provvedo. Ti verrò a trovare ogni giorno.”
La ragazza si tirò su a sedere, indicando l’ambiente intorno con un mezzo giro dell’avambraccio: “E poi non mi piace qua. Casa brutta, vecchia!”
“Madonna benedetta dell’Incoronata!” La voce di Lorusso virò su un tono stridulo. “Ma che volete tutti da me, che vi ho fatto?” Il tenente balzò giù dal letto e cominciò a indossare la giacca e la cravatta senza nemmeno abbottonarsi la camicia né mettere i calzoni. “Tutti a chiedere chiedere chiedere. E predisponga di qua e si prepari di là e l’accoglienza e le consegne e l’inserimento e il trasloco e la casa non mi piace e il carabiniere tutto d’un pezzo e che cazzo!” La ragazza rimase a guardarlo a occhi sgranati mentre l’uomo non la smetteva di camminare su e giù per la stanza vestito solo per metà, con le guance rubizze.
“Ti avverto Dafina, non mi fare incazzare pure tu che sennò ti rimando al paesello tuo a calci in culo, capito!?” La ragazza aveva abbassato lo sguardo, Lorusso aveva calato il casco coloniale sul ciuffo solitario ed era uscito dalla stanza. Ancora in mutande.
Gli era bastato meno di un minuto per capire che non sarebbero andati d’accordo. Del resto un’idea se l’era già fatta con l’aneddoto di Malik. Il maggiore Giraudo si era presentato già nelle prime ore del mattino nell’ufficio del quale avrebbe da quel momento assunto il comando, il che stava a significare che era partito da Asmara a un’ora in cui Lorusso non si alzava ormai da anni. Aveva capelli neri e ricci che contrastavano con gli occhi azzurri, era molto alto e dall’aspetto giovanile, anche se non doveva avere meno anni del tenente. Si scambiarono un saluto militare, ma il maggiore, cui per grado sarebbe spettato di accorciare le distanze offrendo una stretta di mano, non diede mostra di volere rinunciare alle forme. Lorusso lo guidò attraverso i pochi locali della guarnigione, illustrandogli l’attività dell’ufficio e ricevendo di rimando un freddo “So già, so già, il Comando mi ha informato.” L’accento piemontese di Giraudo risultò subito sgradito al tenente. Si muoveva rapido e indossava un’uniforme da marcia, ampia e comoda, senza cravatta, ma risultava di gran lunga più elegante del tenente impettito nel suo metro e sessantacinque. Che cacchio gli era venuto in mente di mettersi pure la divisa da parata? Un’idea cretina di Loretta, ovviamente. Era arrivata da nemmeno due giorni e già faceva danno. Lorusso intendeva mostrare al maggiore innanzitutto la stanza del comandante, che aveva fatto tirare a lucido per l’occasione, ma Giraudo preferì passare in rassegna per prima cosa gli altri uffici e gli alloggi dei soldati che venivano impiegati nelle operazioni di controllo delle merci in transito e di pattuglia. Si soffermò brevemente anche nella stanza del tenente osservando in silenzio le pile di fascicoli accatastate sulla sua scrivania in un modo che a Lorusso non piacque affatto.
Prima di accomiatarsi dal suo vice, infatti, Giraudo lo guardò fisso in faccia: “Tenente, entro domani quella montagna di carta sulla scrivania deve sparire. Le pratiche nei miei uffici vanno esitate a tempo zero, mi sono spiegato?”
“Maggiore, la mole di lavoro come avrete modo…”
“Mi sono spiegato?” Ancora quell’odiosa inflessione piemontese nelle vocali.
“Signorsì.”
“Ora chiamatemi il sottufficiale addetto al Comando. Devo dettare alcune lettere.”
“Vincenzino, caro, dobbiamo assolutamente fare qualcosa per queste tende, sono in condizioni disastrose.”
Lorusso si era appena seduto a leggere il giornale in attesa della cena. Rispose senza distogliere lo sguardo dalle pagine: “Può pensarci Amina, dille di lavarle.”
Loretta rimase a fissare le cortine, i pugni piantati ai fianchi e le gambe appena divaricate: “Sì, buona quella, manco per terra sa lavare, figuriamoci le tende. E comunque sono rovinate, vanno cambiate proprio. Non c’è un bel negozio di tessuti, qui?”
Stava per risponderle di chiedere ad Amina ma si morse il labbro: avrebbe solo peggiorato le cose. “Non ne ho idea, mi informerò.”
“Ecco, bravo, informati pure se c’è qualche buona sarta. Non ho niente da mettere per la cerimonia di inaugurazione di quella scuola di cui ti parlavo e fra poco è pure Natale, ci saranno occasioni… Tutti i miei abiti qui me li sento opprimenti addosso, mi piacerebbe, sai cosa?, rielaborare le forme dei vestiti tipici di qui, quei vestaglioni che sembrano così freschi, ma con la dovuta eleganza italiana, capisci? Ho fatto pure degli schizzi che si potrebbero…”
“Chiederò.”
Più tardi, in auto diretto verso il suo pied-a-terre (a Loretta aveva inventato una storia su verifiche a sorpresa da eseguire subito nei magazzini del porto), il tenente cercò una sponda nel suo attendente: “Malik, se volessi trovare dei buoni tessuti e una buona sarta in questa città dove mi consiglieresti di andare?”
“Signore, posso presentare due miei cugini molto molto…”
“Niente negri, è per il guardaroba di mia moglie.”
Malik non sembrò aversene a male. “So che mogli di ufficiali di marina vanno da modista brava brava in centro di Massaua, si chiama mi pare…”
“Modista è per i cappelli, mia moglie cerca una sarta.”
“C’è tutto qui, signore, sartoria e cappellini per vostra signora. Sono due sorelle, una cuce e una cappella, si chiamano… Non mi ricordo come si chiamano ma so dov’è il posto.”
“Perfetto. Domani pomeriggio ci porterai Loretta. E assicurati di stare in giro il più possibile, ho bisogno di un po’ di tempo per me, mi sono spiegato?”
Malik sventagliò il suo sorriso contagioso. “Signorsì signore. Tutto spiegato tutto capito.”
La sera successiva, a letto con sua moglie – ma già ben appagato nella carne dall’incontro con Dafina di poche ore prima – Lorusso ascoltava il resoconto raggiante di lei.
“Ma lo sai che quel Malik è davvero in gamba? Mi ha portato da queste sarte bravissime che hanno capito subito le mie esigenze e poi mi ha scarrozzato in giro per i negozi del centro. Tutti italiani! È come stare in Italia in fondo, solo che qui ho Malik che mi porta i pacchi.” Rise. “E quel suo buffo modo di parlare, poi. Mi ha raccontato un sacco di cose della vita di qui ed è stato divertentissimo…”
Lorusso avvertì una fitta d’ansia al pensiero che a quel chiacchierone potesse sfuggire qualche particolare del suo menage che potesse accendere il sospetto in sua moglie.
“E mi ha detto anche del tuo lavoro, di come sei benvoluto da tutti, di come sei sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Le luci della stanza del mio buon Vincenzino non si spengono mai. Come quelle della sala del mappamondo di palazzo Venezia!”
Il tenente si rilassò: mica scemo Malik.
“Venerdì della settimana prossima però una pausa dovrai prenderla. Ricordati che c’è quell’inaugurazione. Sarà il mio ingresso ufficiale in società e dovremo essere perfetti tutti e due. In questi giorni dovrò andare dalla sarta molto spesso, puoi mettermi a disposizione il tuo attendente, vero?”
Lorusso sorrise, pregustando già la libertà garantitagli dagli impegni di Loretta, che lui avrebbe potuto spendere in compagnia di Dafina: “Consideralo al tuo servizio, cara.”
In fondo il nuovo andazzo si stava rivelando meno peggio di come se l’era figurato. O almeno così si era spinto a pensare fino al pomeriggio successivo, quando il maggiore Giraudo lo mandò a chiamare.
“Ho controllato i nulla osta di transito a vostra firma degli ultimi sei mesi, tenente. Incrociando le date di ingresso in porto e di ripartenza dei mercantili che ne avevano fatto richiesta. Quello che ho trovato non mi è piaciuto per niente.” Giraudo era in piedi, incorniciato nella luce rifratta dal mare che entrava dalla finestra. Lorusso non riusciva a distinguere bene i tratti del viso ma il tono di voce perentorio e appena trattenuto era sufficiente a rivelarne la collera. Il tenente, interdetto, fissò per un attimo la lampada decò che troneggiava sulla scrivania, troppo pesante e incongrua per l’ambiente. Sarebbe piaciuta a sua moglie. Poi si forzò a guardare in faccia il suo interlocutore. Sapeva bene che distogliere gli occhi è atteggiamento da bugiardi.
“Signore, non capisco quale colpa mi imputate. L’iter di approvazione di un transito è uguale per ogni imbarcazione, ma ovviamente i tempi possono variare a seconda del carico di lavoro del momento o del tipo di controlli che si rendono opportuni.”
“Questo lo so anch’io, tenente, ma nei fascicoli delle pratiche di più lunga gestazione non ho mai – e dico mai – trovato una nota esplicativa in merito al ritardo subito. E se un dato carico avesse meritato un esame più attento sarebbe stato vostro compito e vostro dovere verbalizzare procedure supplementari e motivazioni delle stesse.”
Lorusso allargò le braccia: “Effettivamente…” Gli toccava recitare la parte dell’incompetente o del lavativo.
“Senza contare che sembra che alcune navi siano più fortunate di altre, sempre le stesse, mentre quelle che attraccano qui per la prima volta vengono trattenute in porto di più. Come se dovessero superare un esame…”
“Ma questo si spiega. Le imbarcazioni con rotte commerciali routinarie ormai le conosciamo bene, sappiamo dove guardare…”
“E dove non guardare.”
Lorusso finse di non cogliere l’insinuazione. “Mentre quelle che arrivano per la prima volta dobbiamo vagliarle con più attenzione.”
“O magari mettervi d’accordo sul prezzo.”
Ancora una volta Lorusso scelse il basso profilo: “Maggiore, i dazi doganali non sono di competenza di questo ufficio, io non ho e non ho mai avuto alcun potere al riguardo.”
Giraudo lo interruppe con un gesto spazientito della mano: “Quando queste imbarcazioni ripasseranno da qui, verificherò di persona con i loro comandanti. Da questo momento in avanti, comunque, ogni transito dovrà passare da me prima del nulla osta e nessuna pratica dovrà essere evasa in più di quarantotto ore. Sono stato chiaro?” Lorusso si mise sull’attenti.
Era fottuto. Nonostante fosse stato attento a non mettere mai i bastoni fra le ruote alle compagnie navali più vicine al regime, qualcuno doveva essersi lamentato e le lamentele erano giunte alle orecchie sbagliate. Giraudo non era stato trasferito lì per caso e sapeva dove guardare. I comandanti delle navi con cui Lorusso aveva più consuetudine avrebbero tenuto la bocca chiusa, ne era certo, ma se l’indagine di Giraudo si fosse protratta, qualche lingua lunga sarebbe venuta fuori: si poteva star sicuri pure di questo. Anche solo per ingraziarsi il nuovo comandante, qualcuno lo avrebbe messo nei guai. E tutto per quattro soldi che potevano ben dirsi dovuti, con tutto il lavoro che c’era da fare a fronte di uno stipendio inadeguato e di indennità che tardavano sempre ad arrivare.
“Con la generosa intraprendenza e l’indefesso spirito di sacrificio tipici della gens italica, questo superbo edificio è stato progettato ed eretto in tempi brevissimi ed ora, con l’aiuto e il magistero dei nostri mirabili insegnanti, esso rappresenterà un faro posto a guida delle giovani menti dei nostri ragazzi. Ho personalmente disposto altresì la presenza di una sezione apposita per l’accoglienza dei nostri amici eritrei, pur nella doverosa separazione fra razze, che presuppongono un differente ruolo nella società e destino nella Storia. Ruoli e destini che però confluiscono nel più alto e nobile fine di perpetuare e rinnovare la gloriosa missione civilizzatrice della nostra Patria!” Il vice governatore dell’Eritrea, un omino piccolo di stazza e di intelletto, con un istinto rabdomantico per le gaffe, parlava ormai da quaranta minuti in tono marziale e trionfalistico.
E taglia ‘sto cacchio di nastro! Lorusso era infastidito da un mal di capo blando ma insistente, peggiorato dalla luce impietosa della mattina. Essendo in prima fila, proprio davanti al podio dell’oratore, però, non poteva permettersi di chiudere gli occhi. Doveva sorridere, mostrarsi felice e interessato come stava facendo Loretta, fasciata nel suo assurdo caffettano sagomato che aveva disegnato personalmente (il che non aveva comportato una riduzione del prezzo della confezione, accidenti a lei e pure a Malik che l’aveva portata da quelle due sanguisughe di sarte). Loretta si mostrava concentratissima nel seguire l’oratoria mediocre ed emulativa del vicegovernatore, così come Giraudo, due posti più in là, che seguiva composto e serissimo. Altri dieci minuti e finalmente il nastro venne tagliato e si poté brindare all’inaugurazione. Dopo un’altra mezz’ora le autorità civili e militari locali e tutti gli accompagnatori al seguito si spostarono a consumare una colazione leggera negli eleganti locali del club della canasta.
“Non è il circolo ufficiali di Asmara, ma anche qui a Massaua sappiamo come ricevere degnamente un ospite di riguardo, maggiore.” La voce stentorea e amichevole del vice governatore si era rivolta a Giraudo che, anche lui come Loretta, ma con ben altro rilievo, faceva il suo esordio nella comunità mondana della città.
“Non vi manca Asmara? Ho sentito dire sia molto elegante.” Loretta agitava pigra il ventaglio e sorrideva civettuola cercando di rubare un po’ dell’attenzione che i più riservavano al nuovo comandante piemontese. Lorusso invece avrebbe pagato per rendersi invisibile.
“Il clima, quello sì, mi manca. Sull’altopiano non sembra neanche di stare in Africa. Quanto all’eleganza, signora, vedete, io vengo da Torino. Per me l’eleganza è un’altra cosa.” Giraudo ebbe un breve fremito, poi abbassò gli occhi: “Sia detto senza offesa, ne…”
Loretta chiuse il ventaglio e con quello colpì scherzosamente il braccio del maggiore: “Non deve scusarsi. Conosco Torino e sono certa che non c’è posto in Africa che possa stare alla sua altezza.”
Il vicegovernatore convenne: “L’Africa avrà pure dei bei panorami, lo concedo, e forse non dovrei dirlo, visto il mio ruolo, ma signori volete mettere la raffinatezza della nostra cultura, la varietà della nostra architettura, per non parlare dei sapori della nostra cucina…”
Loretta colse l’occasione per inserirsi nuovamente nel discorso: “Ho mangiato qualche buon piatto anche qui, in effetti. La nostra cuoca fa uno stufato notevole.”
“Ma da noi si mangia bene in ogni regione, ogni territorio con la sua specificità. Qui se gli togli quelle quattro spezie… E poi è troppo caldo. Voi venite dal Nord, signora?”
“Da Bari” fece Loretta con un’intonazione che a suo marito sembrò imitare l’accento piemontese di Giraudo.
Il vice governatore si arricciò un baffo annuendo: “Be’ non proprio clima nordico ma sempre meglio di qui. Dovete amare davvero vostro marito per imporre a voi stessa e ai vostri figli questo sacrificio.”
“Non abbiamo figli” intervenne Lorusso. “Non ancora” precisò Loretta.
“Ma certo, siamo nel ventesimo secolo ormai. Le coppie novelle devono godersi un po’ la vita coniugale, giusto?” La fama di gaffeur del vice governatore non era affatto usurpata.
Loretta voltò lievemente il capo evitando di guardare in faccia gli interlocutori: “Più che altro una casualità dovuta alla contingenza, i lunghi periodi di distacco… la vita della sposa di un ufficiale impegnato in colonia è fatta di attese e solitudini. Ma d’ora in poi sarà tutto diverso.”
Giraudo si schiarì la voce e cambiò argomento: “Ad Asmara invece, come dicevo, sembra di stare in un altro continente…”
Lorusso si staccò dal gruppetto per avvicinarsi alla porta finestra che dava su un’assolata corte interna e rimase assorto a fissare il tricolore floscio appeso all’asta che si ergeva appena oltre il parapetto. Nel cortile fervevano i preparativi per l’allestimento di un presepe vivente e gli schiamazzi dei finti pastorelli lo richiamarono alla incauta battuta del governatore. L’accenno ai figli che non aveva avuto lo fece tornare indietro nel tempo.
Nel tardo pomeriggio del 23 ottobre 1911 avevano riconquistato le posizioni perdute, dopo combattimenti casa per casa con l’aiuto dell’82° Reggimento, e in serata erano entrati nel cimitero di Rebab, dove si era rifugiata la quarta compagnia. Ma la quarta compagnia, così come la quinta, la sua, non esisteva più. Era sopravvissuto giusto lui insieme a pochissimi commilitoni. Tutti gli altri erano stati trucidati in quel cimitero. Si aggirò fra le tombe per un tempo che non avrebbe saputo poi quantificare, ammutolito da quel che vedeva. Riusciva solo a guardare, nient’altro. Non riusciva nemmeno a non guardare. Corpi decapitati o fatti a brani come avanzi del pasto di belve furiose e abbandonati sul terreno. Corpi seppelliti fino al collo, la testa lasciata fuori e deturpata, corpi sepolti a testa in giù fino all’ombelico, mutilati dei genitali, corpi bruciati, scuoiati, impalati. Corpi crocifissi. Nomi che gli giravano in testa, facce che aveva visto ridere solo poche ore prima, Saverio, Matteo, Giovanni, Russo, Cambiaghi, Maratea… Vagò fino a passare vicino a un olivo al quale erano state inchiodate le esili membra di un ragazzo. Aveva la pelle scura, alla luce tremula della torcia, il soldatino assomigliava più a un libico che a un italiano ma Lorusso lo riconobbe subito, nonostante tutto: era Cirillo, il salernitano col quale aveva condiviso il giaciglio solo la notte precedente. Nudo e inchiavardato al legno con le baionette dei Carcano che i libici avevano razziato alle loro vittime. Gli avevano risparmiato il volto, privo di tumefazioni, fatta eccezione per gli occhi, che erano stati cavati fuori dalle orbite e lasciati a penzolare dal nervo ottico. Lo avevano evirato e nel basso ventre c’era uno squarcio dal quale l’intestino era stato sfilato con cura e srotolato per la lunghezza di parecchi metri. Un cane sbavava rumorosamente dandosi da fare sulle viscere del ragazzo, che dovevano sembrargli appetitose come un filotto di salsicce. Lorusso scattò in avanti e lo prese a calci, poi vomitò.
La notte l’aveva trascorsa insonne, scosso da brividi irrefrenabili nonostante il caldo. Al mattino era giunta voce della cattura di alcune spie. I rastrellamenti e le perquisizioni andavano avanti ormai da ore nell’intera oasi di Tripoli. Chi veniva trovato in possesso di armi era subito giustiziato, moltissimi altri venivano arrestati. Lo mandarono a chiamare verso le tre del pomeriggio.
I due sergenti lo aspettavano fuori dalla stanza della piccola costruzione imbiancata a calce nella quale era stato momentaneamente insediato il Comando e lo condussero a un casotto laterale, addossato al primo e dotato di un’entrata separata. Il più anziano dei due sottufficiali gli aveva parlato a bassa voce: “Gli hanno trovato addosso delle mostrine da bersagliere, voi siete gli ultimi rimasti.”
L’altro sputò per terra: “’Ste merde, e pensare che il Comando aveva rinunciato a fortificare nella Menscia per paura di rovinargli le case. Gli portiamo la civiltà e loro invece di ringraziare ci ripagano così, beduini del cazzo!”
Il primo annuì verso l’interno della stanza: “È dentro.”
Lorusso era entrato, avvicinandosi alla panca alla quale era ammanettato un ragazzino di non più di undici anni. La zazzera riccioluta e gli occhi rapidi erano impossibili da dimenticare. Si trattava dello stesso che, ormai due giorni prima, aveva mostrato alla sua compagnia il magazzino in cui acquartierarsi. Quello dove erano rimasti intrappolati come topi. Gli si mise davanti senza dire una parola, a guardarlo. Non c’era bisogno di parole, entrambi sapevano tutto quel che c’era da sapere. Fece un cenno agli altri due perché lo tenessero fermo.
Loretta aveva mentito. Il fatto di non aver avuto figli non era dovuto al caso. In principio Lorusso lo aveva consapevolmente evitato. Non sopportava più lo sguardo di un bambino su di sé. Quando finalmente aveva ceduto alle insistenze della moglie, che non voleva che la gente cominciasse a mettere voci in giro, i figli non erano arrivati comunque. Una punizione per i suoi peccati forse, oppure un monito.
“Tenente, cosa fate tutto solo laggiù? Non gradite un canapé?”
Lorusso si accese una Macedonia mentre Dafina si alzava dal letto. Lui sapeva che il fumo le dava noia ma sapeva anche che non si sarebbe mai permessa di lamentarsene. Poteva dunque godersi in pace il piccolo privilegio di fumare a letto che ormai a casa sua gli era precluso. Sentiva la ragazza cantare piano nell’altra stanza. Aveva una bella voce. Era tutta bella, Dafina, ormai aveva sedici anni ed era sbocciata completamente, si era fatta più prosperosa e allo stesso tempo più elegante. Le forme dolci e lievemente molli della pubertà si erano affilate e la sua figura era mozzafiato. La razza superiore era la sua, altro che storie. Per un attimo il tenente cullò la fantasia sovversiva di introdurre in società la sua concubina. Cosa sarebbe successo se si fosse portato lei all’inaugurazione della scuola al posto di Loretta? Tutte quelle sciacquette delle mogli di ufficiali, amministratori coloniali e commercianti che buttavano il loro tempo al circolo di canasta sarebbero sembrate ancor più le donnette scialbe che erano. Ma quel giorno non sarebbe mai arrivato. Spense la sigaretta nel bicchiere lasciato sul comodino e cominciò a rivestirsi. Quel giorno non sarebbe mai arrivato, no. Il governo stava facendo il possibile per evitare proprio simili episodi di promiscuità e la presenza di sua moglie, giunta lì grazie a un incentivo di stato, ne era la triste prova.
Dafina entrò nella stanza portandogli una tazzina di caffè e Lorusso le accarezzò una coscia più con tenerezza che con voluttà. Razza di ipocriti.
Infilò gli stivali e la giacca della divisa. “Devo andare.”
“Ma è presto.”
“Dovrò camminare un po’. Da qui non posso prendere una vettura di piazza.”
“Non viene Malik a prendere?”
“No, accompagna mia moglie in giro.” Dafina sorrise con un lampo malizioso negli occhi. “Che c’è?”
“Sempre con tua moglie, la vede più lui di te…”
Lorusso si rabbuiò in volto: “È grazie a lui che ho il tempo di venire spesso qui. E comunque non ti permettere.”
Camminando per la strada assolata in direzione del centro il tenente borbottava tra sé. Che gli era venuto in mente a quella? Belle son belle, ‘ste ragazze, ma sempre negre, e ragionano da negre. Come si potevano pensare certe cose anche solo per scherzo? Certo che come era venuta in mente a lei quell’assurdità, forse poteva venire in mente ad altri. Ci mancava solo fare la figura del cornuto, e per giunta cornificato da un beduino.
Tornò in ufficio a chiudere qualche pratica. Il giorno precedente erano arrivati sei cargo e con le nuove direttive di quel rompiscatole non si poteva sgarrare. Il tutto senza poter nemmeno contare sulle entrate extra di una volta, la cui riscossione aveva dovuto sospendere per non rischiare di dare concretezza ai sospetti di Giraudo. Sperava solo che qualche comandante troppo zelante non si presentasse in ufficio per versargli la sua quota. Di solito andava lui a riscuotere, ma non si poteva mai sapere. Uno come Viscovich, per esempio, che correva sempre come fosse inseguito dal demonio, a non vederlo arrivare si sarebbe fatto vivo in ufficio, col rischio di combinare un guaio. Al prossimo passaggio della sua nave, la Atlas, la settimana successiva, avrebbe dovuto fare attenzione e trovare il modo di parlargli subito.
A casa, durante la cena, Lorusso prese il discorso alla lontana. Non lo avrebbe ammesso nemmeno a sé stesso ma il tarlo gli rodeva: “Com’è andata oggi, hai fatto spese?”
Loretta rispose senza nemmeno alzare lo sguardo dal piatto: “Niente di che, soliti giri.”
“Ti trovi bene con Malik?” Gli sembrò di intravedere un lieve tremore alla mano che reggeva la forchetta.
“Sì, è molto disponibile e gentile. Ci facciamo certe chiacchierate poi…”
“Chiacchierate, certo, lui è un chiacchierone. Ti seccherebbe farne a meno per qualche giorno? Ho bisogno dell’auto per ora.” La pausa gli sembrò troppo lunga.
“No, figurati, mi arrangerò.”
Il giorno successivo, Lorusso guardava Malik alla guida con occhi del tutto nuovi: provava a guardarlo come lo avrebbe guardato una donna. Le mani possenti che stringevano il volante, il busto ampio stretto dalla giubba di tela e dalla fascia verde in vita. Anche i piedi erano enormi e, stando a quel che aveva visto negli anni di colonia, non erano le sole cose enormi nel corpo dei maschi negri. Un brivido gli corse lungo la schiena, ma che diavolo andava pensando?
La domanda gli venne fuori dalla bocca senza che nemmeno se ne accorgesse: “Ti trovi bene con mia moglie, ti piace?”
Malik rimase impassibile: “Molto bene signore, sì. Signora molto brava signora.” Non aggiunse altro, niente commenti, niente aneddoti, niente sorrisi. Guidava intento alla strada, lo sguardo fisso davanti a sé mentre un rivolo di sudore gli scendeva dal tarbush lungo la tempia. Dov’era finito adesso il chiacchierone?
La sera successiva, quando Loretta era in bagno, Lorusso ispezionò le lenzuola con una piccola torcia. Trovò due capelli. Loretta aveva capelli lisci, lunghi e castani, lui aveva solo quel ciuffo liscio che di notte comunque preservava con una retina. Questi due intrusi invece erano ricci e scuri. Capelli da negro. Poteva averli persi Amina rifacendo il letto, certo, ma non erano troppo corti?
Sua moglie rientrò in camera e Lorusso spense la pila. “Cosa facevi?”
“Niente, pensavo di aver perso… ma no, niente.” Si alzò e fece per uscire dalla stanza.
“Non vieni?”
“Mi è passato il sonno. Oh, ti volevo dire, domani non ho bisogno di Malik. È tutto tuo.” Si addormentò ore dopo sul divano. Quel letto gli faceva schifo.
La mattina si levò di buon’ora, disse a Malik di tenersi a disposizione di Loretta senza degnarlo d’uno sguardo e prese una vettura di piazza fino in ufficio. Controllò che non ci fossero urgenze e ritornò sui suoi passi con un’altra auto del parco automezzi della guarnigione. Giunto a destinazione, si dispose ad attendere nel vicolo dietro casa sua. Sostituì la giacca della divisa con una giubba grigia e il casco d’ordinanza con un cappellaccio anonimo: da lontano nessuno lo avrebbe riconosciuto.
A metà mattina finalmente Loretta salì sulla Fiat che Malik aveva posteggiato davanti alla villetta e Lorusso accese il motore. Si tenne a distanza di sicurezza fino a quando non furono nel pieno centro di Massaua. La Fiat 508 si fermò due volte davanti ad altrettanti negozi, Loretta scese e ritornò rapidamente con involti che affidò all’attendente, poi si allontanò da sola a piedi. Lorusso scese a sua volta dall’auto e si apprestò a seguirla, quando si avvide che Malik stava facendo la stessa cosa. La donna entrò in un piccolo caseggiato signorile a un piano dietro piazza degli Incendi e pochi secondi dopo anche il negro infilò il portone. Lorusso tornò indietro: aveva visto abbastanza. Evidentemente Loretta e il negro avevano trovato anche un’alcova fuori di casa, dove per non dare nell’occhio arrivavano separati per consumare la loro immonda relazione. Come aveva potuto sua moglie scendere così in basso?
Un ennesimo schiaffo gli imporporò la guancia destra: “Chi cazzo mi ha portato a me, chi? Proprio io gliel’ho consegnato su un piatto d’argento, l’amante esotico, tié!” Giù un’altra sberla sulla testa pelata mentre continuava a biascicare soffocato. “E lo sanno tutti, già lo sanno tutti di sicuro, le voci corrono, e anche se non lo sanno lo sospettano e parlano lo stesso. Ecco perché tutti quei sorrisini l’altra sera, tenente di qua tenente di là ma che bella signora ce l’aveva tenuta nascosta. Madonna benedetta!” E schiaffi e schiaffi e schiaffi.
“Tutto bene, caro?” La voce di Loretta, dall’altra parte della porta, risuonò allarmata.
Immerse la faccia nel catino colmo d’acqua, poi si tirò su. “Tutto bene.”
I giorni passarono e Lorusso era sempre più assente, quasi catatonico. Quando incrociava Malik, il vigliacco appariva imbarazzato, come se avesse intuito che lui sapeva. Un paio di volte gli era sembrato che volesse dirgli qualcosa, ma poi si era trattenuto. Per calmare i nervi, il tenente si forzava a lunghe passeggiate durante l’orario di lavoro, avanti e indietro lungo i vicoli dell’angiporto, ad andatura marziale e spedita, come se stesse svolgendo un servizio e fosse diretto da qualche parte. Fu proprio a causa di una di queste assenze e dello stato confusionale nel quale ormai si trovava costantemente che Lorusso non si accorse dell’arrivo dell’Atlas in porto e che non era presente quando il comandante Viscovich fece il suo ingresso nell’ufficio di Giraudo, pensando di dover trattare col maggiore come in precedenza aveva fatto col tenente.
Al ritorno in ufficio, Lorusso ascoltò impassibile l’indignata reprimenda del superiore che lo metteva davanti alle sue responsabilità, solo le ultime frasi gli rimasero attaccate addosso: “Questa è una vergogna, voi siete una vergogna per il nostro Esercito. Tenente ritenetevi consegnato fino a data da destinarsi. Fatevi assegnare un alloggio alla caserma del porto e non muovetevi da lì fino a mio ordine.”
Era la vigilia di Natale, una consegna a tempo indeterminato in quei giorni avrebbe avuto per chiunque il valore di una condanna pesantissima, ma ormai non gli importava più.
Nel pomeriggio, mentre fumava affacciato alla finestra della piccola stanza al primo piano della caserma, vide passare la Fiat 508 guidata da Malik. Dal lato del passeggero l’ombra di uno di quegli atroci cappellini che sua moglie aveva acquistato appena arrivata a Massaua.
Lorusso si volse all’interno, posando lo sguardo sulla branda sconnessa sulla quale aveva lasciato il cinturone. Lo prese e sfilò la Beretta 34.
Come in un sogno era uscito nella calura pomeridiana, aveva fatto cenno a una vettura di piazza ed era salito. A piazza degli Incendi aveva percorso la stessa strada fatta seguendo Malik qualche giorno prima: sembravano passati anni. Il portone del palazzo era accostato, salì al primo piano. Prima di sfondare, tentò la maniglia: la porta era aperta. I due svergognati si sentivano sicuri. Mise il colpo in canna ed entrò piano, ritrovandosi in un vestibolo ampio illuminato dalla luce filtrata dagli scuri accostati. Sfilò davanti a uno specchio dalla cornice liberty in ferro battuto che gli restituì un’immagine di sé molto composta, calma. Sapeva ciò che doveva fare e non c’era più nulla da perdere a questo punto. In fondo al corridoio, dalla porta socchiusa, giungevano voci sommesse. Dall’altro lato rispetto alla porta, su una chaise longue di velluto verde, stavano abbandonati alla rinfusa degli indumenti. Il sangue gli batteva come un martello alle tempie. A un metro di distanza colse un’intonazione familiare, che però non si aspettava. Si bloccò, immobile.
“Mi hai proprio stregato ne! Non riesco a fare a meno di te neanche per un giorno.”
“Siamo due imprudenti, due pazzi.” La voce di Loretta suonava felice come mai gli era capitato di sentirla.
“Pazzi forse, imprudenti no. Ho consegnato tuo marito in caserma prima di mandarti a chiamare. Non va da nessuna parte se non lo dico io. Il mio piccolo regalo di Natale…” Il maggiore Giraudo emise un breve risolino secco.
“Cos’ha fatto?”
“Prendeva qualche bustarella, niente di che.”
“Oh mio Dio, che vergogna.” Adesso sua moglie sembrava sull’orlo del pianto e Lorusso, per la prima volta da giorni, sentì che andava recuperando lucidità.
“Ma no, ma no, non fare così, Lori.” Il piemontese prese a tranquillizzarla. “Son cose che fanno tutti, ti assicuro. Solo che qui dobbiamo stare attenti che non si sappia o va a finire che la Capitaneria di Porto ci soffia la guarnigione. Niente scandali, stai tranquilla. A tuo marito lo metto a posto con un bello striglione e tutto si sistema.”
Ascoltando, Lorusso distinse sulla chaise longue la giacca del maggiore. Si mosse piano fino a prenderla. Sfilò i gradi dalle controspalline e posò nuovamente l’indumento sulla sedia, poi si mosse a ritroso, in punta di piedi, e uscì.
Camminando verso il porto, si sentiva sempre più leggero. Il mondo attorno a lui aveva d’improvviso riacquistato colori e suoni. Giocherellando con le placchette di stoffa rigida dei gradi sottratti a Giraudo, gli era anche tornato l’appetito. In ufficio prese un foglio e scrisse un biglietto con grafia ferma, poi si trattenne qualche secondo nella stanza del comandante e infine ritornò verso la caserma. Fischiettava una canzonetta allegra.
A pomeriggio inoltrato Giraudo rientrò in ufficio e sedendosi alla scrivania trovò il biglietto sopra il quale stavano le due strisce di tessuto con su la torre e la stella di maggiore. D’istinto si portò la mano alla spalla e si accorse che le controspalline della giacca erano spoglie. Lesse d’impeto e poi si abbandonò sulla poltrona.
Maggiore, vi restituisco i gradi che evidentemente vi appartengono e che ho curiosamente reperito in un luogo non all’altezza della vostra ben nota rettitudine, certo che detto ritrovamento sia dovuto a mera casualità. Con ciò ritengo che gli spiacevoli equivoci insorti riguardo alle nostre rispettive posizioni possano ritenersi chiariti e conclusi. Se così non fosse, naturalmente, dei nostri comportamenti saranno interessati i più alti comandi, con le conseguenze che ciascuno di noi può già immaginare ma che, son certo, sapremo entrambi affrontare a testa alta e con spirito di abnegazione, com’è nostra italica abitudine.
Colgo l’occasione altresì per propormi per l’incarico di ufficiale di collegamento con il comando generale di Asmara, attualmente vacante. È un ruolo che mi imporrebbe frequenti assenze dal mio amato ambiente familiare, ma credo di essere la persona più qualificata per ricoprirlo e saprò avere la forza d’animo per affrontare le inevitabili rinunce che esso comporterà. Le auguro un santo e felice Natale.
Viva l’Italia
Ten. Vincenzo Lorusso
Un commento Aggiungi il tuo