
Il 19 febbraio 1937, Yekatit 12 secondo il calendario copto, ci fu una delle più brutali e sanguinose rappresaglie contro la popolazione civile nella storia del colonialismo, non solo italiano, ma europeo. Nei tre giorni che seguirono migliaia di uomini, donne e bambini furono uccisi ad Addis Abeba.
Il 20 febbraio, Yekatit 13, a Reggio Emilia il collettivo Arbegnuoc Urbani ha voluto ricordare la violenta storia del colonialismo italiano legandola alla sua eredità che si manifesta col razzismo e il fascismo odierno.
Di fronte alla Stazione di Reggio Emilia, su ognuno dei 24 pali della rotonda, sono stati affissi i nomi di persone uccise con una matrice razzista in Italia dal 1979 ad oggi.



Attraverso l’opera di Psikopatik, affissa su un muro che guarda proprio verso via Eritrea, abbiamo voluto ricordare le vittime etiope uccise dalla ferocia fascista.


Le azioni di guerriglia odonomastica nel quartiere Santa Croce hanno voluto svelare la storia coloniale dei nomi delle vie, con cartelli integrativi di approfondimento storico e simbolici cambi di nomi che suggeriscono nuovi significati per il futuro.
Così via Mogadiscio è diventata via Ahmed Alì Giama in ricordo del primo assassinio a sfondo razzista salito agli onori della cronaca nel 1979.



Via Axum trasformata in via Vittime del Madamato, dedicata alle donne abusate e sfruttate nelle colonie.



Via Agosti è stata rinominata in via Soumayla Sacko in memoria del giovane bracciante e sindacalista ucciso nel 2018.



Il colonialismo fascista, come quello liberale, non mente. Entrambi hanno la colpa di aver reso l ‘Africa, per usare le parole dello scrittore Flaiano, “lo sgabuzzino delle porcherie (…) dove gli occidentali vanno a sgranchirsi la coscienza”. È dunque una colpa enorme aver taciuto queste stragi, la colpa di cui si è macchiato un suprematismo bianco, italiano, fascista, che ancora oggi uccide nelle nostre strade.
Per questo abbiamo voluto rendere visibile i nomi di alcune delle vittime di questo razzismo e fascismo dal ‘79 a oggi, nella piazza della stazione di Reggio Emilia.
Ricordano alle nostre coscienze che non aver elaborato e processato il nostro passato da carnefici produce il presente che germina da questa malapianta. Questo è il momento di dare un nome alle nostre colpe e guardare le nostre mani sporche di sangue. Angelo Del Boca, nel libro “Italiani brava gente?” ricorda le immagini delle foto rinvenute nelle tasche dei soldati italiani fatti prigionieri dagli Etiopi dopo il crollo dell’impero fascista. Spesso, infatti, i carnefici italiani si fecero fotografare in posa dinanzi alle forche, reggendo per i capelli le teste mozzate degli Arbegnuoc etiopici. Una galleria dell’orrore, dove ciò che sorprende di più – sottolinea Del Boca – è il pieno consenso espresso dai volti di chi circonda gli aguzzini. Come se questi macabri spettacoli costituissero un rito naturale quotidiano e scontato.
Questo è il vero volto del fascismo, questo e solo questo va ricordato. Il colonialismo, però, non è stato solo il cuore dello sviluppo italiano, ma anche il motore di accumulazione di tutta l’Europa moderna che, per citare Fanon, prima celebra l’individuo e poi lo massacra in ogni angolo della terra.
La scelta del luogo, la stazione centrale, come palcoscenico di guerriglia odonomastica, esula dall’azione classica che ha reso il collettivo protagonista nei mesi scorsi. Questo territorio urbano, tra i più meticci della città, rende infatti visibile in maniera nitida le odierne colonie, interne o prossime alla nostra realtà: comunità e individui diversi dall’etnia preponderante nel territorio, vittimizzati dalle politiche di sicurezza, dalla retorica del decoro urbano e dagli stereotipi ricorrenti, o criminalizzati dalla cronaca locale.
Certo noi non possiamo lottare in nome degli altri, ma recidere il filo spinato invisibile che crea una città nella città, quello sì, lo possiamo fare. Le nostre parole potranno diventare cesoie, trance, lime, grimaldelli, capaci di tagliare confini e forzare muri invisibili, dietro ai quali veniamo costretti a odiarci o, nel migliore dei casi, a ignorarci.
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