Fantasmi urbani e canzoni dello stupro

Quando il 19 febbraio (Yekatit 12) abbiamo attraversato il centro di Bologna con un trekking urbano alla scoperta di relitti, ruderi e spettri del passato coloniale che ancora segnano la città, arrivati in via Marconi, al civico 24, ci siamo fermati di fronte a Palazzo Faccetta Nera. Non sono molti gli odonimi e i toponimi a Bologna che ricordano così esplicitamente colonialismo e fascismo, anche se l’amministrazione comunale sta facendo di tutto per riportarli in città in questi ultimi anni (da papa Benedetto XV a Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia primo duca degli Abruzzi, passando da Antonio Baldacci). Il nome dell’edificio nella centrale via Marconi rimane ancora avvolta nel mistero… Perché si chiamava – e si chiama ancora – così? E Faccetta Nera, la canzone, che cosa racconta davvero? Riportiamo qui sotto il testo usato come riferimento durante il trekking urbano per raccontare questo pezzo di città e un approfondimento del musicologo Alessandro Giovannucci dell’Università di Teramo.

Palazzo Faccetta Nera, via Marconi, Bologna

URBANISTICA E REGIME

Tra le due guerre Bologna conosce uno sviluppo urbano simile per dimensioni a quello avvenuto nel secondo dopo guerra, favorito dalla nuova importanza assunta dalla città come nodo commerciale, amministrativo e industriale. Il conseguente forte incremento demografico mette in evidenza la carenza di abitazioni disponibili per i nuovi bolognesi e impone all’amministrazione di attuare gli interventi previsti dal piano regolatore del 1889, integrati dalla variante del 1927 per aggiornare il piano vigente e intervenire dove le opere ipotizzate non rispondono più alle esigenze cittadine. L’attuazione del piano porta a una zonizzazione sia funzionale che sociale, impostando aree urbane fortemente omogenee e gerarchizzate come la “città degli studi”, i quartieri residenziali fuori porta Santo Stefano e D’Azeglio e i quartieri popolari a nord della ferrovia.

La variante del ’27 non si occupa dello sviluppo delle zone periferiche; un’urbanizzazione semintensiva si verifica nei quartieri orientali e occidentali, con lo sviluppo di palazzine e villini, che si trasformeranno in residenze di lusso man mano che ci si avvicina alle colline; in tutto ciò nessun nuovo spazio viene dedicato al verde pubblico. L’espansione urbana porta la città a incunearsi nelle valli del Savena e del Reno e vengono raggiunti abitati fino ad allora distinti come Borgo Panigale e l’Arcoveggio. Si potrà parlare di aree metropolitane bolognesi solo dopo la fine degli anni Cinquanta, nonostante l’idea di una “grande Bologna” comprendente i comuni di San Lazzaro, Casalecchio di Reno e Borgo Panigale si fece strada dagli anni Venti, sull’onda di ampliamenti analoghi enfatizzati dal regime, attuati a Milano, Genova, Venezia e Napoli.

I primi studi sull’ampliamento del comune di Bologna risalgono al 1926; le ipotesi progettuali recepiscono sia motivazioni legate alla nuova realtà economica della città, ponendo di poter fare un balzo in avanti nella gerarchia urbana nazionale, che motivazioni di tipo fiscale legate al calcolo degli introiti che sarebbero derivati a Bologna dall’ampliamento della circoscrizione; si dovranno attendere dieci anni prima di ottonere il decreto definitivo di aggregazione, per il solo comune di Borgo Panigale. Durante l’amministrazione del podestà LeandroArpinati (1926-1929) vengono eseguiti alcuni importanti interventi, come lo stadio Littoriale, il nuovo Ippodromo dell’Arcoveggio e l’allargamento di via Ugo Bassi, già previsto nel piano 1889. Vengono costruiti più di seicento nuovi alloggi, principalmente a opera dell’Istituto Fascista per le Case Popolari nei quali si traferiscono gran parte degli inquilini sfrattati dalle demolizioni nel centro storico, come nel caso di via Ugo Bassi. Si cercò di attuare il potenziamento dei servizi a rete, poiché alla “fascistizzazione” doveva corrispondere una modernizzazione.


CONCORSO PER LA SISTEMAZIONE DI VIA ROMA

Gli anni Trenta sono caratterizzati anche dai grandi sventramenti per la costruzione del quartiere universitario e per l’apertura di via Roma, interventi già previsti nel piano dell’89. Nel caso di via Roma si trattava di realizzare il tratto di strada tra Piazza San Francesco e la stazione di cui ne esisteva solo una parte in corrispondenza di Piazza Umberto I (attuale piazza dei Martiri). Le demolizioni iniziarono nel 1932 delineando tutti gli allineamenti tranne sul lato meridionale per il quale il Comune bandisce un concorso nazionale nel 1936 al fine di risolvere il problema dell’incrocio tra via Ugo Bassi, via Lame e via San Felice.

Il concorso per la sistemazione dell’incorocio tra via Roma e via Ugo Bassi, si insinua come una necessità di trasformazione delle funzioni del centro, “nel senso della costruzione di un luogo di direzione politica, economica, amministrativa e culturale della città, consona alle esigenze di decoro del ceto medio urbano, cui il regime rivolge particolare attenzione” (L. Baldissara, Per una città più bella e più grande. Il governo municipale di Bologna negli anni della ricostruzione (1945-1956), Bologna, Il Mulino, 1994, p. 339) via Roma doveva diventare un asse monumentale all’interno del tessuto urbano consolidato di Bologna, che assolvesse anche alla funzione di generare un’arteria dall’impatto monumentale di collegamento tra il centro e la stazione alternativa a via Indipendenza.

La scadenza del Piano del 1889, realizzato sulla necessità di ristrutturare le situazioni più critiche nel centro città, costrinsero il podestà Arpinati a prolungarne la validità per altri venticinque anni. La politica urbanistica che fu seguita si concentrò sulla necessità di sfoltire il tessuto storico. Tra il 1922 e il 1936, si deliberò per la demolizione di circa 600 mila metri cubi di fabbricati dal centro storico per interventi progettati lungo la via Roma, piazza dei Martiri e via Irnerio, i nuovi assi stradali, deputati a rendere più fluido il traffico metropolitano.

Tra i progetti presentati al concorso notiamo come nei nuovi progetti si riscontri una filosofia ideativa di tipo avanzato, infatti i progettisti guardano al moderno senza razionalizzarlo nel contesto di oggetti antichi, in cui si andava a operare. Il concorso interessava l’antica via delle Casse, una delle zone più malsane di Bologna, già oggetto di studio in passato; il piano del 1889 prevedeva la sostituzione dell’antico borgo di via delle Casse con un rettifilo più largo, parallelo a via dell’Indipendenza, con inizio da Piazza Umberto I fino a via Ugo Bassi; di tale progetto poco era stato realizzato e le attese per la riqualificazione di questa parte di città erano ambiziose ed urgenti. Il concorso nazionale fu bandito il 24 novembre 1936 e i suoi aspetti principali erano viabilità, igiene ed estetica precisando le indicazioni volumetriche degli edifici in progetto, ponendo attenzione alla conservazione del caratteristico ambiente bolognese e rispettando gli edifici di notevole interesse storico-artistico. Il tema proposto era di due livelli, la sistemazione dell’accesso a via Roma innestata con la contigua piazza Malpighi e la soluzione della viabilità affluente al nodo stradale di via Ugo Bassi, via S. Felice, via Roma. Tra tutti i 19 progetti presentati se ne classificarono 3 al primo posto: – “Porta Stiera 6” del gruppo P. Bottoni, N. Bertocchi, G. L. Giordani, A. Legnani, M. Pucci, G. Ramponi – “Felsina 1937” del gruppo A. Pini, G. Rabbi, A. Susini e A. Vitellozzi – “K 12” di A. A. Degli Innocenti.

Oltre a questi furono segnalati altri due progetti. Il 9 Ottobre 1937 il podestà affidò all’architetto “del regime” Marcello Piacentini (vicepresidente della commissione giudicatrice) di supervisionare alla stesura collettiva e definitiva del Piano, quale sintesi dei tre progetti vincitori ex-aequo. Nella parte orientale si lasciò spazio a fabbricati estesi in altezza, lasciando maggiore superficie da adibire a giardini; l’altro versante prevedeva la demolizione dell’Ospedaletto cinquecentesco del Tibaldi e la confluenza di via S. Felice, di via del Pratello e di via Ugo Bassi su un piazzale adiacente alla parte terminale di piazza Malpighi.

Lo studio collettivo venne presentata nel 1939, ma non raccolse molto consenso presso l’opinione pubblica bolognese, apertamente ostile all’ulteriore estensione delle demolizioni previste e degli espropri necessari. La guerra e le vicende che segnarono Bologna negli anni successivi, fecero sì che gli studi si fermassero e i lavori proseguirono solo al termine del conflitto. Via Roma già fortemente delineata divenne un luogo eletto per l’insediamento di architetture dalla fisionomia caratterizzata dai nuovi canoni estetici: al numero civico 14 troviamo il palazzo del Gas, opera degli architetti Legnani e Petrucci, ai quali si deve anche, al numero 16, la sede della Società Agraria Immobiliare; Al numero 22-24, il palazzo residenziale Faccetta Nera realizzato da Francesco Santini nel 1936, decorato con un’originale ornamentazione a losanghe concentriche interposte fra le finestre, le quali scandiscono una tessitura della facciata di estrema semplicità e basata su di un modulo dimensionale quadrato, che è quello della finestra stessa. Ai numeri 28-32, si trova il palazzo Lancia a opera di Paolo Graziani nel 1937, dove si ritrovano molti degli stilemi dell’architettura di matrice piacentiniana (Marcello Piacentini). Federica Legnani, Via Roma, 1936-1937, in Norma e arbitrio: architetti e ingegneri a Bologna 1850-1950, a cura di Giuliano Gresleri, Pier Giorgio Massaretti, Venezia, Marsilio, 2001, Carte e pensieri per costruire la città. Eccellenze dell’Archivio Storico dell’Università di Bologna, Bologna, CLUEB, 2016, Armando Melis, Il concorso per un progetto di sistemazione della nuova via Roma e della zona adiacente a Bologna, in: “Urbanistica”, 4 (1937) (Bologna è una delle città che presenta un numero insignificante di toponimi di derivazione più o meno coloniale, per lo meno prima del 2021).

Con uno stradario degli anni Trenta, periodo di maggior Africanismo toponomastico, è possibile constatare che questo passato viene rievocato nelle vie del quartiere Cirenaica e in via Dogali, in piazza Vittoria d’Etiopia e in due vie dedicate ai due esploratori, “precursori bolognesi dell’impero” Luigi Balugani e Pellegrino Matteucci). La revisione e/o rimozione del passato fascista e colonialista italiano nella città di Bologna è stato reso possibile anche dalle iniziative di singoli cittadini; l’impegno di sopprimere i segni e i luoghi del fascismo iniziano già il giorno della liberazione della città- 21 Aprile 1945- quando foto dei caduti e delle cadute nelle rappresaglie nazifasciste vengono appese sulla facciata di palazzo d’Accursio, nell’angolo abitualmente utilizzato per le fucilazioni; nel 1946 gli operai della Curtisa e della Sasib rimuovono i 159 fasci che decoravano la ringhiera di ferro intorno al Litorale, fuori dall’orario di lavoro (chissà che, dopo il bassorilievo di Umberto I, la giunta non decida di rimettere pure quelli).

L’attività dei comuni cittadini si amplia anche alla sostituzione di toponimi imposti dal fascismo: nell’ottobre 1945, via delle Camicie nere diventa via fratelli Rosselli, che nel 1947 verrà rinominata a Irma Bandiera in memoria della giovanissima partigiana uccisa, dopo giorni di torture in quel tratto di strada (sempre in quest’occasione via Dogali diventerà via Antonio Gramsci, primo toponimo coloniale soppresso). Il rione Cirenaica (in origine quariere libico o Libia) nasce in seguito al piano regolatore del 1889, che prevede un ampliamento esterno alle mura della città con la costruzione di nuovi quartieri popolari. Il 9 Aprile 1913 il consiglio comunale si riunisce per dare seguito alla domanda presentata dall’istituto autonomo “perché sia dato un nome […] alle strade del piano regolatore che sono state attuate o che lo saranno tra breve fuori porta S. Vitale nei terreni ex Pozzi Vignoli […] In omaggio poi al concetto espresso dalla Giunta di attribuire alle nuove vie […] nomi ricordanti i luoghi illustrati dal nostro esercito e dalla nostra flotta nella recente guerra, ha proposto di assegnare alle tre lunghe strade parallele che da via S. Donato, attraversando la ferrovia si protendono fino alla via S. Vitale, i nomi di via Tripoli, via Bengasi e via Libia […] e di assegnare alle cinque strade trasversali di minore importanza i nomi di via Rodi, via Dardanelli, via Derna, via Due Palme, via Homs” (Ascbo, delib. cons. del 9 aprile 1913, pp. 428-429). Il consiglio approva proponendo di sostituire via Dardanelli con via Zuara. Più tardi si aggiungerà via Cirene.

Il fascismo a Bologna intervenne più massicciamente a livello urbanistico (Impianto Polisportivo del Littoriale, sede dell’opera nazionale maternità e infanzia, edificazione delle case popolarissime, il villaggio della rivolzione fascista) mentre non cambiò molto gli elenchi stradali limitandosi a qualche toponimo di stampo imperiale, come la centrale via Roma. Le imprese coloniali sono celebrate invece con targhe e lapidi, spesso collocate in scuole elementari, licei e chiese (targa ai caduti bolognesi della guerra d’Etiopia nella basilica di Santo Stefano) La seduta del consiglio comunale del 16 aprile 1949 che, presieduta dal sindaco Giuseppe Dozza, deve deliberare per sostituire i nomi di alcune vie bolognesi e tra queste le vie Bengasi, Tripoli, Derna, Zuara, Due Palme, Homs, Rodi e Cirene con quelli di alcuni esponenti della Resistenza secondo un elenco fornito dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi): Tripoli con Paolo Fabbri, Zuara con Massenzio Masia, Derna con Sante Vincenzi, Due Palme con Mario Musolesi, Homs con Gianni Palmieri, Rodi con Gastone Rossi, Cirene con Francesco Sabatucci e Bengasi con Giuseppe Bentivogli.

Il 3 ottobre 1948, l’Anpi aveva già posto una targa commemorativa nell’allora via Bengasi, in ricordo di trentatré caduti «per la nostra libertà» e tra questi Francesco Sabatucci. Durante la seduta, vengono sollevate molte obiezioni, alcune a livello generale, altre sono concentrate sul rione Cirenaica. In generale non troviamo nessuna dichiarazione critica nei confronti del colonialismo, dalla Liberazione al Trattato di pace del 1947, anche dai partiti della sinistra italiana; la presa di distanza riguardava il modo in cui il fascismo aveva condotto le sue guerre coloniali, ma le colonie in se erano ritenute legittime; una coscienza anticolonialista si sarebbe formata solo più avanti. Non era possibilire attuare una critica come quella che siamo in grado di fare oggi. La proposta viene accettata a maggioranza, con 5 voti contrari e 3 astenuti. La decisione di sostituire i nomi coloniali fu coraggiosa, ma non poteva essere troppo esplicita infatti fu lasciata via Libia come una “sintesi”, a rappresentare-preservare quello che i toponimi soppressi nell’insieme rappresentano, “rimane, diciamo così, il valore morale, il significato di un nostro eventuale diritto a questa terra” (afferma il comunista Aldo Cucchi durante la seduta).

Alcuni abitanti della zona sostengono che la soppressione di questi toponimi sia ancor oggi un errore e che la prima guerra libica fu un’impresa eroica, altri non ritengono l’episodio significativo. Primo quaderno di Cirene “In cantiere” Vincenza Perilli “Da Dogali a Gramsci” Toponomastica e memoria coloniale a Bologna. -Via Roma è una denominazione urbanistica, la più diffusa nei Comuni d’Italia, imposta dal regime fascista di Benito Mussolini. Il 1o agosto 1931 i podestà, che amministravano allora i comuni, ricevettero una circolare da parte dei prefetti che esprimeva l’ordine di intitolare una via non secondaria di ogni centro al nome di Roma con l’inizio dell’anno X dell’era fascista (28 ottobre 1931).


LE CANZONI DELLO STUPRO: COLONIALISMO E SESSIMO IN MUSICA, PRIMA E DURANTE IL FASCISMO (di Alessandro Giovannucci)


Prima di qualsiasi cosa diciamolo: Faccetta Nera è una canzone pienamente fascista. Può sembrare un’affermazione scontata, ma non lo è. Se infatti si fa qualche ricerca ci si imbatte in frasi del tipo “era una canzone fascista?”, oppure “la canzone che non piaceva a Mussolini”, fino ai paradossali “canzone che promuove la fratellanza e l’unione dei popoli”. Ecco, queste sono solo stupidaggini, spesso anche disoneste.
“Faccetta nera” viene composta dal poeta romano Renato Micheli nel 1935. All’epoca i mezzi di comunicazione erano fortemente impegnati a sostenere le guerre di conquista in Africa. Influenzato da questo battage Micheli scrive “Faccetta nera” in romanesco, per presentarla al Festival della canzone romana dello stesso anno. La partecipazione alla fine salta, ma il pezzo viene eseguito al Teatro Quattro Fontane di Roma. Forte dell’interpretazione del noto Carlo Buti la canzone sarà un successo, complice anche la messa in scena della prima, dove un’attrice nera viene portata sul palco in catene e liberata nel segno del tricolore.
È allora una canzone di libertà e fratellanza? No, è mera propaganda. La guerra andava giustificata, e la scusa è stata prontamente trovata diffondendo la notizia che sotto il perfido Negus esistesse ancora la schiavitù. Il fardello dell’uomo bianco era a quel punto di esportare la libertà. E quindi le faccette nere locali andavano liberate, ecco il messaggio della canzone. Ma in che modo sarebbe avvenuta questa liberazione?

Faccetta nera è un inno al madamato: l’usanza di sposare, acquistare, schiavizzare e stuprare giovanissime donne locali. Il militare italiano può anche immaginare sé stesso come un liberatore, ma questa liberazione, questa fraternità è insieme colonialista e sessista. Possiamo ipotizzare che questo contenuto “pruriginoso” abbia garantito a questa canzone di essere una sorta di inno ufficiale del fascismo, insieme a “Giovinezza”.

Mussolini non amava Faccetta nera? Vero. Però non per il presunto contenuto sovversivo, ma solo perché era cambiato il vento, e da lì a tre anni sarebbero arrivate le leggi razziali. Quindi si doveva nascondere sotto il tappeto il fatto che i militari e i civili fossero andati nelle colonie anche spinti dal mito della Venere Nera, o della schiava sessuale da brutalizzare: passaggio necessario per diventare, come diceva la prima versione: “sorella a noi” e “bella italiana”.
Faccetta nera fu rimaneggiata diverse volte, ma mai eliminata. Il sotto testo erotico e il motivetto erano troppo popolari. Le modifiche al testo hanno accompagnato i vari cambi di rotta del fascismo riguardo alla questione “razziale”. Fu una canzone mai proibita dal regime, perché comoda e orecchiabile. Anche perché la musica è stata presa quasi di peso da ”La vita è comica presa sul serio” del comico Gustavo Cacini, come dimostrato anche da una serie di udienze in tribunale. Il regime cercò anche di fare una sostituzione cercando di promuovere la canzone “Faccetta bianca”. Realizzata da Nicola Macedonio ed Eugenio Grio racconta il saluto di una ragazza sul molo, mentre il fidanzato legionario parte per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, come dice la scrittrice Igiaba Scego. E sempre Scego parla di come in “Faccetta nera” il corpo delle donne africane sia:
Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile.


Anche in questa storia, come nelle altre ascoltate oggi (il 19 febbraio N.d.R) c’è un fantasma:
La madama è la donna africana, spesso figura ‘parallela’ rispetto alla moglie lasciata in Italia, con cui si stabiliva, more uxorio, una relazione orientata a fini sessuali e domestici. Il fantasma è il corpo della donna, il fantasma della moglie.

Ed eccolo, chiaro e semplice, il trait d’union tra il razzismo e il sessismo paternalista e purificatore: il corpo della donna nera. “La nostra legge è schiavitù d’amore”, dice Faccetta nera. Ma anche le altre canzonacce colonialiste dell’epoca e anche precedenti, come “Africanella” o “Pupetta mora”, propongono lo stesso modello. L’uomo bianco, e la donna come suo oggetto. Per questo non c’è da esitare a definire questo corpus come “Canzoni dello stupro”. E che si apra un dibattito, e se ne parli. Forse non c’è discorso contro il colonialismo, che non parta anche dal corpo delle donne, del sessismo e dalla cultura dello stupro.

Fonti:
Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Faccetta_nera
E. Di Bona: Faccetta nera: dolci promesse all’‘animalino docile”, MOSAICO VII 2020.
L. Donati: E il regime censurò perfino Faccetta nera, Patria indipendente, 24 giugno 2007
I. Scego: La vera storia di Faccetta nera”, https://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/
2015/08/06/faccetta-nera-razzismo

A.Vaccarelli: Faccetta nera, bell’abissina. Rappresentazioni della donna africana nel razzismo coloniale e nel fascismo, in “Le frontiere del corpo. Metamorfosi e mutamenti” a cura di Cagnolati, F. Pinto Minerva, S. Ulivieri, Pisa 2013.
C. Volpato: La violenza contro le donne nelle colonie italiane, Deportate, Esuli, Profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, 10, 2009.


Faccetta nera (Carlo Buti)


Se mo dall’artipiano guardi er mare Moretta che sei schiava tra le schiave Vedrai come in un sogno tante navi
E un tricolore sventolar per te Faccetta nera, bell’abissina
Aspetta e spera che già l’ora si avvicina Quando staremo vicino a te
Noi te daremo un’altra legge e un altro Re La legge nostra è schiavitù d’amore
Ma è libertà de vita e de pensiere Vendicheremo noi Camicie Nere
Gli eroi caduti e liberando te
Faccetta nera, bell’abissina
Aspetta e spera che già l’ora si avvicina Quando staremo vicino a te
Noi te daremo un’altra legge e un altro Re Faccetta nera, piccola abissina
Te porteremo a Roma, liberata
Dar sole nostro tu sarai baciata

Sarai in Camicia Nera pure te
Faccetta nera, sarai romana
E pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana Noi marceremo insieme a te
E sfileremo avanti al Duce e avanti al Re Noi marceremo insieme a te
E sfileremo avanti al Duce e avanti al Re

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